di Sebastiano Aglieco
Ablazione, dal latino ablatus, auferre, “portar via” è usato sia in medicina con il significato di “asportazione”, sia in diritto dove indica il “provvedimento che toglie il godimento e l’esercizio di un diritto o interesse”. E’ il senso centrale di questa poesia, il suo smuoversi da un luogo – quello di un evento traumatico – ricostruito nel doppio registro della cronaca, in presa diretta, e quello della ricostruzione mentale per frammenti, per strappi di ricordi e censure, per ricerca di senso. Il nome di una donna è cancellato, ablato, appunto; il nome, diventa, esso stesso, un pezzo di corpo senza più senso: la prova sottratta.
Subisce, questo corpo, la stessa legge del non senso del Castello, l’oscura sete di distruzione della bestia, pronta ad azzannare ancora, nel buio o nella solitudine di una strada. E’ il male che abita il mondo, radice ben piantata nel cuore della terra, dotata della logica ferrea dell’inganno per sottrazione. E ciò che colpisce in questo libro impressionante, è proprio l’insepoltura del corpo della donna, riconsegnato, certo, al rito cerimoniale della pietas, ma violentato del suo nome, del senso della sua morte.
La voce narrante, allora, coinvolta in prima persona, è impegnata a liberarsi dal fango di senso e di dolore che l’ha avvolta per anni, vocata ancora e per sempre al senso della scena dolorosa; ma soprattutto, al non senso del dopo, della vita necessaria che mette foglie e frutti sullo stesso grande albero che affonda le sue radici nel seno oscuro del male: vita e morte, perfettamente contrapposte, necessarie una all’altra, gemelli misteriosi, dolorosi e gaudenti insieme. Necessari, soprattutto nella cerimonia dell’indossare le maschere del braccato e del suo braccatore, nel gioco di una rincorsa mai portata a compimento, del raggiungere l’irraggiungibile. In questo inseguimento si situa il terrore della parola che si accosta al viso del male e che accarezza pietosamente la testa dei superstiti, sia che descriva la donna nel suo essere oltre, con la bocca strappata, l’impronta della ferita, l’inaudita violenza descritta nel referto, sia che si soffermi sul silenzio del dopo.
Oltre i campi, infine, alato, il fantasma muto. Soluzione liberatoria, forse, nella sua necessità, del trasformare in anghelos, il corpo non spiegato, restituendogli il nome attraverso una nuova parola che non ha, non può avere più voce. Qualcuno che è stato carne, offendibile proprio nell’intimità della sua sostanza, è finalmente allontanato, portato verso l’unica dimensione possibile per la sopravvivenza dei vivi: quella di una seconda sepoltura, del corpo scarnificato, delle ghirlande di fiori e dell’ocra rossa.
(da Antefatto)
Nella discarica dove fu trovata, seguire
i lampi di sole fin dove sopra chiazze di plastica bruciata
è ricresciuta l’erba –
c’è chi dice
che l’intera area circondariale, devastata e come intristita
dal pulviscolo dell’inceneritore
ritornerà limpida e verde
e grandi scheletri di ferro arrugginito,
rifiuti ingombranti, sbucheranno
dal folto come rovine –
ma anche questo
non cancellerebbe le finissime tracce di reato
particelle nell’aria – nella mente – le quattro
impronte sull’argine, dalla parte del prato
dove si avviò la fuga, segno che lì si è difesa
e poi si è chinata, ha tentato –
e il punto, un grumo nell’erba, dove tutto
si risolse iniquamente, un colpo alle spalle, un foro minuscolo, simulando
un atto volontario e altri dettagli, inezie apparenti, indizi
sparsi ad arte per credere e far credere
una morte sola, irrelata, a un presunto
capolinea della Storia, persino necessaria.
***
Sono state trovate
alcune ombre sul selciato, contenitori
simili a scatole portalettere – si opinò – travolti dal sole
nel riverbero delle pozzanghere, effetti personali
chiaramente femminili, sebbene sottoposti
a un certa, serena brutalità, una pratica – si disse poi –
devota ma sommaria, l’astuccio
risultò contenere il largo sorriso criptato, l’impronta
che gli inquirenti ricondussero
dopo esame comparato, a un indice puntato
su tutte le cose, in assenza di disprezzo, così che
anche tutto quel sangue attorno – sugli alberi
sui passanti sul sole – quella bestialità
fin lì latente, i riscontri
più banali e abbietti del linciaggio
conservavano ancora su di lei
qualcosa di alto e come divertito.
Eppure capisco il livido
rivedo il colpo, la salma
buttata nell’arenile, coperta
di terra, i capelli strappati, l’unghiata
nella mente privata di simbolo, l’impronta
sul volto dove si è spezzato l’alfabeto.
***
(da Solitudine del bene I)
Ritrovare la via, il ciottolo piatto, placca
da posare nel sospiro: il tuo nome
dato a noi e tolto
nello sparso e muto dominio delle cose –
vaghiamo senza voce, persa
ogni casa, la patria
e il paesino sul labbro, e tutto
ci minaccia, ci ammonisce senza dire, tutto
va a significare scandendosi
sul sangue altrui, specchio nelle ferite, pronto
a essere aperto nella tenebra della violazione, sillaba
rossa caduta dalla bocca
sulle mani di tutti, lettera
che vengo a imbrattare di notte
sulla vasca del battesimo spezzato.
***
Può essere che non ci sia più una via
diversa e la ferita sulla tempia
si sia semplicemente aperta e sia iniziato
il tempo di un canto basso
come il volo degli uccelli delle mani
radente sulle cose del tavolo –
o un tempo,
altro tempo, pure insista qui
a notte alta in piedi nella cucina simbolica
a chiedere cos’è quel pezzo di pane sempre
intatto sul piatto del discorso, quel tozzo
di luce e come ha potuto resistere
davanti a tutto e perché
non ha mai dato
voce ad una sola sera.
***
(da Il nemico davanti)
Fin dall’origine quando hai interpellato –
me o uno come me – non c’era differenza,
prima o poi ci siamo
trovati di fronte, ci siamo guardati
e lì sotto gli occhi, a un palmo dalla violenza
una differenza, una minima sparente differenza
***
era questa parola da guastatore
fra me e te, interrotta sui sassi dalle raffiche
fratturata nelle botte, chiazzata di sangue, era
questo colpo preso, per sempre, il corpo
nel fosso e poi l’iniquità, la congettura moltiplicata
attorno al campo sterrato, al solco di pneumatico
alla gonna stracciata, al sesso riempito di sabbia.
Mi alzo ancora, vengo fin qui dove comincia
la cosa pubblica.
***
(da Solitudine del bene II)
Chiamano, da una mano all’altra
da tempia a tempia fischiano il segnale, bisbigliano
la parola che apre ancora
lo stolido persistere del male – rigagnolo di luce
nel fosso nello scolatoio
dove il giorno di tutti
si lava di tutto e una mano
rimane realmente nuda
senza avere sfiorato l’essere
per tutta la vita –
chiamano,
ma l’albero delle sere non era lì per intendere
la querela di una vittima sfinita
solo per accennare
che altro dalla vita
è il discorso della vita e occorreva
una scelta giovane esposta
davanti al crocicchio dove sta
inchiodata la vitrea cognizione dell’intelletto
che ammira un fiore nel campo senza carpirlo.
***
(da Iniziare a parlare)
Con te, che diventi il punto livido intriso
nell’erba, la zona pestata, le urla
di notte dallo sterrato, quell’ululato umano
che uno in canottiera bianca
– la donna dagli occhietti ispidi –
dal complesso di villette a schiera
uscirà davanti ai fotografi a negare tre volte
prima che si accenda la televisione, al telefono
arrivi la notizia, le agenzie
non battono quel palpito
che dall’inermità della mano
ha lasciato cadere nel pavimento
quanto di giovane e puro
fiotta dalla bocca spaccata della specie, annerisce
nel buio dei secoli, diventa un altro secolo buio.
***
(da L’ablazione)
Tu muori nel tuo simbolo, ti spezzi
nella bocca e cadi nella lingua deserta, il tuo
ciottolo riluce di lontano – a volte
in queste notti della specie, l’antico
osso sillabico risplende improvviso
sull’orizzonte basso, tra la fumea dei roghi:
l’anca della voce, il segno che tu ritorni, o disconosciuta,
e sei fra noi come un pane dato, sprecato nelle tetre fami – verrà
la peste che ti ha maculata, la febbre che arse
la fronte spianata del vocabolo, se ne andrà
la lebbra nell’acqua della fonte, il fango dagli orci,
la melma nel riso, il buio dalla fronte.
***
Hai sulla fronte il diadema dell’ablazione
quel lampo dietro te fratturato
da tutto il resto della vita, quel passo sbarrato
verso il giorno d’altri: tu vivi
protesa sul lembo, sfasato sempre un poco oltre
l’argine feriale, ovunque nei fossi, nei visi divenuti pazzi
fiorisce il tuo scandalo nella primavera in prosa della comunità.