Poesia/Recensioni

Paolo Donini, “L’ablazione”, La vita felice, 2010

di Sebastiano Aglieco

Ablazione, dal latino ablatus, auferre, “portar via” è usato sia in medicina con il significato di “asportazione”, sia in diritto dove indica il “provvedimento che toglie il godimento e l’esercizio di un diritto o interesse”.  E’ il senso centrale di questa poesia, il suo smuoversi da un luogo – quello di un evento traumatico –  ricostruito nel doppio registro della cronaca, in presa diretta, e quello della ricostruzione mentale per frammenti, per strappi di ricordi e censure, per ricerca di senso. Il nome di una donna è cancellato, ablato, appunto; il nome, diventa, esso stesso, un pezzo di corpo senza più senso: la prova sottratta.

Subisce, questo corpo, la stessa legge del non senso del Castello, l’oscura sete di distruzione della bestia, pronta ad azzannare ancora, nel buio o nella solitudine di una strada.  E’ il male che abita il mondo, radice ben piantata nel cuore della terra, dotata della logica ferrea dell’inganno per sottrazione. E ciò che colpisce in questo libro impressionante, è proprio l’insepoltura del corpo della donna, riconsegnato, certo, al rito cerimoniale della pietas, ma violentato del suo nome, del senso della sua morte.

La voce narrante, allora, coinvolta in prima persona, è impegnata a liberarsi dal fango di senso e di dolore che l’ha avvolta per anni, vocata ancora e per sempre al senso della scena dolorosa; ma soprattutto, al non senso del dopo, della vita necessaria che mette foglie e frutti sullo stesso grande albero che affonda le sue radici nel seno oscuro del male: vita e morte, perfettamente contrapposte, necessarie una all’altra, gemelli misteriosi, dolorosi e gaudenti insieme. Necessari, soprattutto nella cerimonia dell’indossare le maschere del braccato e del suo braccatore,  nel gioco di una rincorsa mai portata a compimento, del raggiungere l’irraggiungibile. In questo inseguimento si situa il terrore della parola che si accosta al viso del male e che accarezza pietosamente la testa dei superstiti, sia che descriva la donna nel suo essere oltre, con la bocca strappata, l’impronta della ferita, l’inaudita violenza descritta nel referto, sia che si soffermi sul silenzio del dopo.

Oltre i campi, infine, alato, il fantasma muto. Soluzione liberatoria, forse, nella sua necessità, del trasformare in anghelos, il corpo non spiegato, restituendogli il nome attraverso una nuova parola che non ha, non può avere più voce. Qualcuno che è stato carne, offendibile proprio nell’intimità della sua sostanza, è finalmente allontanato, portato verso l’unica dimensione possibile per la sopravvivenza dei vivi: quella di una seconda sepoltura, del corpo scarnificato, delle ghirlande di fiori e dell’ocra rossa.

(da Antefatto)

Nella discarica dove fu trovata, seguire

i lampi di sole fin dove sopra chiazze di plastica bruciata

è ricresciuta l’erba –

c’è chi dice

che l’intera area circondariale, devastata e come intristita

dal pulviscolo dell’inceneritore

ritornerà limpida e verde

e grandi scheletri di ferro arrugginito,

rifiuti ingombranti, sbucheranno

dal folto come rovine –

ma anche questo

non cancellerebbe le  finissime tracce di reato

particelle nell’aria – nella mente – le quattro

impronte sull’argine, dalla parte del prato

dove si avviò la fuga, segno che lì si è difesa

e poi si è chinata, ha tentato ­–

e il punto, un grumo nell’erba, dove tutto

si risolse iniquamente, un colpo alle spalle, un foro minuscolo, simulando

un atto volontario e altri dettagli, inezie apparenti, indizi

sparsi ad arte per credere e far credere

una morte sola, irrelata, a un presunto

capolinea della Storia, persino necessaria.

***

Sono state trovate

alcune ombre sul selciato, contenitori

simili a scatole portalettere – si opinò ­­­– travolti dal sole

nel riverbero delle pozzanghere, effetti personali

chiaramente femminili, sebbene sottoposti

a un certa, serena brutalità, una pratica – si disse poi –

devota ma sommaria, l’astuccio

risultò contenere il largo sorriso criptato, l’impronta

che gli inquirenti ricondussero

dopo esame comparato, a un indice puntato

su tutte le cose, in assenza di disprezzo, così che

anche tutto quel sangue attorno – sugli alberi

sui passanti sul sole – quella bestialità

fin lì latente, i riscontri

più banali e abbietti del linciaggio

conservavano ancora su di lei

qualcosa di alto e come divertito.

Eppure capisco il livido

rivedo il colpo, la salma

buttata nell’arenile, coperta

di terra, i capelli strappati, l’unghiata

nella mente privata di simbolo, l’impronta

sul volto dove si è spezzato l’alfabeto.

***

(da Solitudine del bene I)

Ritrovare la via, il ciottolo piatto, placca

da posare nel sospiro: il tuo nome

dato a noi e tolto

nello sparso e muto dominio delle cose –

vaghiamo senza voce, persa

ogni casa, la patria

e il paesino sul labbro, e tutto

ci minaccia, ci ammonisce senza dire, tutto

va a significare scandendosi

sul sangue altrui, specchio nelle ferite, pronto

a essere aperto nella tenebra della violazione, sillaba

rossa caduta dalla bocca

sulle mani di tutti, lettera

che vengo a imbrattare di notte

sulla vasca del battesimo spezzato.

***

Può essere che non ci sia più una via

diversa e la ferita sulla tempia

si sia semplicemente aperta e sia iniziato

il tempo di un canto basso

come il volo degli uccelli delle mani

radente sulle cose del tavolo –

o un tempo,

altro tempo, pure insista qui

a notte alta in piedi nella cucina simbolica

a chiedere cos’è quel pezzo di pane sempre

intatto sul piatto del discorso, quel tozzo

di luce e come ha potuto resistere

davanti a tutto e perché

non ha mai dato

voce ad una sola sera.

***

(da Il nemico davanti)

Fin dall’origine quando hai interpellato –

me o uno come me –  non c’era differenza,

prima o poi ci siamo

trovati di fronte, ci siamo guardati

e lì sotto gli occhi, a un palmo dalla violenza

una differenza, una minima sparente differenza

***

era questa parola da guastatore

fra me e te, interrotta sui sassi dalle raffiche

fratturata nelle botte, chiazzata di sangue, era

questo colpo preso, per sempre, il corpo

nel fosso e poi l’iniquità, la congettura moltiplicata

attorno al campo sterrato, al solco di pneumatico

alla gonna stracciata, al sesso riempito di sabbia.

Mi alzo ancora, vengo fin qui dove comincia

la cosa pubblica.

***

(da Solitudine del bene II)

Chiamano, da una mano all’altra

da tempia a tempia fischiano il segnale, bisbigliano

la parola che apre ancora

lo stolido persistere del male – rigagnolo di luce

nel fosso nello scolatoio

dove il giorno di tutti

si lava di tutto e una mano

rimane realmente nuda

senza avere sfiorato l’essere

per tutta la vita –

chiamano,

ma l’albero delle sere non era lì per intendere

la querela di una vittima sfinita

solo per accennare

che altro dalla vita

è il discorso della vita e occorreva

una scelta giovane esposta

davanti al crocicchio dove sta

inchiodata la vitrea cognizione dell’intelletto

che ammira un fiore nel campo senza carpirlo.

***

(da Iniziare a parlare)

Con te, che diventi il punto livido intriso

nell’erba, la zona pestata, le urla

di notte dallo sterrato, quell’ululato umano

che uno in canottiera bianca

– la donna dagli occhietti ispidi –

dal complesso di villette a schiera

uscirà davanti ai fotografi a negare tre volte

prima che si accenda la televisione, al telefono

arrivi la notizia, le agenzie

non battono quel palpito

che dall’inermità della mano

ha lasciato cadere nel pavimento

quanto di giovane e puro

fiotta dalla bocca spaccata della specie, annerisce

nel buio dei secoli, diventa un altro secolo buio.

***

(da L’ablazione)

Tu muori nel tuo simbolo, ti spezzi

nella bocca e cadi nella lingua deserta, il tuo

ciottolo riluce di lontano – a volte

in queste notti della specie, l’antico

osso sillabico risplende improvviso

sull’orizzonte basso, tra la fumea dei roghi:

l’anca della voce, il segno che tu ritorni, o disconosciuta,

e sei fra noi come un pane dato, sprecato nelle tetre fami – verrà

la peste che ti ha maculata, la febbre che arse

la fronte spianata del vocabolo, se ne andrà

la lebbra nell’acqua della fonte, il fango dagli orci,

la melma nel riso, il buio dalla fronte.

***

Hai sulla fronte il diadema dell’ablazione

quel lampo dietro te fratturato

da tutto il resto della vita, quel passo sbarrato

verso il giorno d’altri: tu vivi

protesa sul lembo, sfasato sempre un poco oltre

l’argine feriale, ovunque nei fossi, nei visi divenuti pazzi

fiorisce il tuo scandalo nella primavera in prosa della comunità.


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