Quella che vedete qui a lato pesantemente truccata non è un’attrice degli anni trenta, ma una scrittrice, forse la prima vera scrittrice di best seller di quegli stessi anni, che lavorò molto per il cinema hollywoodiano, regalandogli alcuni successi mondiali. Là dove si fanno e si disfano le reputazioni letterarie e si classificano i gusti popolari, il suo nome porta con sé una scia di interrogativi e di stupori – «L’hai mai letto ?» «Mah, credevo di averlo letto ma non ne sono affatto sicura» «Non conosco nessuna delle giovani generazioni che l’abbia letto». E questo è tutto quello che si può dire e udire su Vicki Baum. Il mio intervento quindi non vuole essere un articolo di critica e meno ancora un saggio critico sulla produzione di questa autrice, più semplicemente si propone come la presentazione di una personalità letteraria che merita una riscoperta. Vicki Baum nasce a Vienna nel 1888 da famiglia ebrea. Dopo un inizio artistico come musicista di arpa si dedica al giornalismo, seguendo quella vocazione alla scrittura che aveva coltivato fin dall’adolescenza. Scrisse il suo primo libro all’età di 31 anni, in seguito tradotto in inglese col titolo Early Shadow. La sua fama però è legata al romanzo Grand Hotel del 1929, che divenne il primo best seller della storia. Adattato per il cinema, dopo aver vinto un Academy Award, si trasformò in un successo mondiale e in un film cult con Greta Garbo, John Barrymore e Joan Crawford. Dopo essere stata invitata a scriverne la sceneggiatura, la Baum emigrò negli USA con la famiglia. Divenne cittadina americana nel 1938. Da allora scrisse più di cinquanta romanzi, e di questi almeno dieci furono adattati per il cinema. Le sue opere del dopoguerra sono in inglese piuttosto che in tedesco. Sposata due volte, la prima con un giornalista austriaco, la seconda con un direttore d’orchestra suo migliore amico d’infanzia, Vicki Baum morì a Hollywood nel 1960. Il suo libro di memorie È stato tutto molto diverso fu pubblicato postumo nel 1964. Queste a grandi linee le tappe di una scrittrice che ebbe fama e onori in vita, al punto che in Germania è stata posta una targa commemorativa presso il sito della sua casa di Berlino – per poi essere rinchiusa nel baule dei ricordi della nonna insieme alle gonne charleston, i cappellini alla cloche e le occhiate languide di Greta Garbo.
Come lettrice considero Vicki Baum, nella versione italiana, un mio personale “ritrovamento”, a tal punto da dover combattere contro un sentimento di riluttanza nel condividere, proprio attraverso queste righe, la sua conoscenza con altri. Titubanza dettata da un senso di gelosa esclusività. Il motivo è presto detto: la Baum è riuscita ad avvolgermi con atmosfere, a condurmi dentro moti dell’animo così intimi e intensi, da provocare in me un rifiuto all’idea di spartirli con altri. Tutto questo in soli tre libri; sono infatti solo tre i romanzi tradotti in italiano: Grand Hotel, Sellerio editore, 2009 – Tutti matti in provincia, Salani editore, 2011 – Hotel Shanghai, Bookever, 2004. Vicki Baum si definiva «Una scrittrice di prim’ordine tra quelle di seconda qualità» – e a fatica considero questo giudizio davvero sincero dal momento che dimostrò di essere la prima vera autrice di best seller pluripremiata, cosa di cui non poteva non avere coscienza.
Colta e sofisticata, umoristica, poetica e profonda, la Baum ci offre, in versione italiana, tre splendidi romanzi dalla struttura assolutamente moderna e in grado di suscitare, con densa e materica capacità d’analisi, ciò che oggi definiamo emotions. La scrittura della Baum non è mai astratta, eppure riesce a trattare in modo magistrale la materia impalpabile dei movimenti dell’animo umano, raggiungendo le correnti più interne. I suoi personaggi sono individui trascinati da un destino plasmato da un intricato caos di volontà e forze esterne, tutte egualmente scandagliate dall’occhi dell’autrice. La sua scrittura vigorosa e mai banale esplode all’interno delle cose reali, non dei concetti; aderisce alla vita secondo una visione che possiamo ritrovare in Flannery O’Connor – non di naturalismo, ma una scrittura che naturalizza la finzione, evitando di teorizzare o psicanalizzare pensieri, relazioni umane, eventi storici e sociali – anche questi ultimi finiscono col concretizzarsi e prendere rilievo tradotte nei passaggi e nei conflitti di esistenze concrete. Un best seller in definitiva è composto da una serie di elementi convenzionali interrotti da colpi di scena lungamente preparati e molto attesi dal lettore – alla fine anch’essi prevedibili nella loro imprevedibilità – ma Vicki Baum neutralizza i pericoli insiti in questa struttura giustificando ogni più piccolo elemento e rendendolo indispensabile. Il suo innato talento cinematografico per il montaggio trova magistrale espressione nel romanzo che diventò il suo primo best seller e la catapultò fuori dai confini della Germania, Grand Hotel. In letteratura lo spazio dei grandi alberghi all’epoca non era certo una novità, basti pensare a Morte a Venezia di T. Mann, o F. Kafka in America con l’Hotel Occidentale, o ancora All’ombra delle fanciulle in fiore di Proust con il Grand Hotel di Cabourg-Balbec. La vera innovazione della Baum si trova all’interno della composizione narrativa che la rivela un’attenta assimilatrice delle nuove tecniche letterarie allora in fieri, al punto che il romanzo appare ora come un prototipo della tecnica letteraria moderna. All’interno di un plot dai ritmi inconsueti e spezzati da continui flash-back e segmenti che appartengono ora a questo ora a quel personaggio, l’autrice inserisce una scrittura convenzionale ma acutissima nell’illuminare passaggi e risvolti emotivi che conducono a epiloghi assolutamente logici ma tutt’altro che ovvi, e del tutto privi di lieto fine, dal momento che puntualmente le aspettative dei personaggi vengono deluse, mentre le loro azioni li conducono verso una soluzione mai consolatoria, piuttosto l’unica possibile.
Il secondo romanzo tradotto in Italia Tutti matti in provincia (il cui titolo suona più umoristico di quanto l’opera in realtà non sia) è ambientato in una lenta e sonnacchiosa piccola città della provincia tedesca degli anni trenta, Lohwinckel. Un evento inusuale, e casuale, mette a soqquadro la cittadina, sovvertendone l’ordine sociale e personale degli abitanti. Anche qui una trama costituita da vite, anche distanti geograficamente tra loro, che convergono in un punto, il fulcro del conflitto, s’intrecciano, permettono alla Baum di comporre un appassionante corale di personaggi e ambienti, mostrando di poter gestire, da grande scrittrice, sia i tocchi poetici che una sapienza di osservazione sociale attraverso una scrittura vivida, brillante, nonché godibilissima da parte di un vasto pubblico. Hotel Shanghai è il terzo romanzo disponibile in traduzione. Nonostante sia del 1937 e segua Grand Hotel, si presenta più ampio, schematico e rigido nella struttura: tuttavia l’ampio panorama asiatico punteggiato da presenze europee e statunitensi giustifica pienamente la disposizione fortemente scandita delle storie di nove personaggi, che partendo da luoghi e realtà incredibilmente lontane tra loro, finiranno per incrociare i loro destini a Shanghai, lungo le sue vie che sembra conducano tutte verso l’omonimo Hotel Shanghai. Una lettura che oserei definire massimalista, per la vastità dei panorami e delle implicazioni che ambisce a coinvolgere. La Baum reduce dal grande iniziale successo, torna al topos dell’hotel, come spazio che esclude il mondo esterno pur assimilandolo pienamente e riproducendone all’interno le regole che definiscono le relazioni, gli equilibri e le tensioni. Ne deriva un grande affresco della realtà asiatica degli anni trenta, dove le fasi storiche si uniscono alle vicende personali dei personaggi, che si profilano come costitutivi di un’ampia raggiera di affluenti pronti a gettarsi in quell’unico, incredibile, eterogeneo bacino della città di Shanghai. Shanghai all’epoca fu assediata e cannoneggiata per 88 giorni. Innumerevoli volte si era combattuto per le sue strade, ma mai come in quell’estate-autunno del 1937. Oggi Shanghai è la capitale finanziaria e mondana della Cina; per capirla occorre risalire a quegli anni trenta che Vicki Baum evocò magistralmente, riuscendo a fare anche di questo romanzo un successo mondiale. Nella postfazione a Grand Hotel Mario Rubino riconosce alla scrittrice la capacità di suscitare emozioni seppure in chiave nostalgica. In tutta franchezza, leggendo le sue opere non posso dire di aver assaporato un appagamento di sapore tanto vintage quanto snobistico, piuttosto la vertigine totalizzante di una narrazione piena e composita, e l’invidia malcelata, difficilmente arginabile, di fronte a un’abilità letteraria inusuale e una facilità di scrittura addirittura eccessiva.
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