Poesia/Recensioni

Rinaldo Caddeo, “Siren’s Song. Selected Poetry and Prose 1989-2009”, New York, Chelsea Editions, 2009

di Sebastiano Aglieco

Si potrebbe raccontare questo libro partendo da una dichiarazione di poetica:

scrivere vuol dire raddoppiare
entrare nello specchio e stare
al di qua
guardarsi guardare dall’aldilà

(Narciso, p.126)1

Ambiguità dello sguardo, dunque, che guarda ed è guardato, è contenuto e contiene. Sguardo doppio della realtà, ma anche a partire dal doppio/contrario che lo/definisce.

E poi ecco, come necessaria conseguenza, una dichiarazione di tecnica dello sguardo:

Appoggiati alla spalletta del ponte, ci sono due modi di osservare il moto dell’acqua:

(1)    accompagnare il movimento della corrente con il movimento degli occhi, assecondando la corrente, prendendo parte a essa.
(2)    Fissare con uno sguardo immobile la corrente, rimanendone fuori.

Nel primo caso si vede una superficie liscia e nitida. In mezzo alla corrente, lo sguardo vede delle ondulazioni, delle bolle, dei mulinelli, si affianca ai relitti (un sacchetto, una bottiglia, la testa di una bambola, il copertone di un camion, la carogna di un topo) […]

Nel secondo caso lo sguardo non vede nulla di chiaro o di preciso, niente di riconoscibile. La corrente non lo trascina ma è tutto un ribollio sfocato, una contorsione di trecce, arborescenze, grifi, uccellastri, imprecazioni, da cui si alza e s’inabissa una scia abbagliante o un’opacità rigonfia. Ora fissa una zona ora un’altra della corrente, in su in giù, a sinistra, a destra ma la visuale non si snebbia, i contorni non si definiscono. (Sguardo, p.116)

Due modi diversi del conoscere le cose, rispetto ai quali Caddeo non ammette preferenze, proprio per questa ambiguità della visione. Visione, visibilità, ma anche occhi fragili, luce che annega nell’ombra delle cose o nelle eventualità del sogno.

Canto delle sirene, dunque. Ma anche, letteralmente: suono che producono le sirene. Malìa del canto; rumore di fondo, pericolo dell’annegamento per inganno:

L’ho vista in un lampo: spalle ampie, braccia sottili, seni rotondi, una lunga chioma, occhi blu. Una coda scagliosa di pesce, al posto delle gambe. […] Quando mi sono avvicinato a lei, ha incominciato a dibattersi deformandosi e a ritirarsi. Poi si è alzata una nuvola di vapore dalla sua bocca e un forte odore di mare. (Sirena, p.18)

Subito il compito: afferrare ciò che improvvisamente  dilegua e scompare. Il poeta sostiene di vedere e quindi suo è il lavoro. Questa sirena è, infatti, anche una Euridice che è stata persa, o si è perduta, nelle secche della modernità senza trovare più il suo Orfeo. Poesia è approssimazione che non giunge mai al traguardo ma può solo accostarsi; se lo sguardo si gira, perde l’oggetto del suo canto.

Quale oggetto? Quello di una Bellezza sporcata, calata nelle perdite di senso del contemporaneo – questa sirena appare nel naviglio, probabilmente arrivata da un canale di scolo – .

La sua è una bellezza non accolta se non da chi possiede ancora qualche barlume di voce non omologata – il poeta, appunto –

E’, per gli altri,  solo l’immagine senza il suo significato; la bellezza delle sfilate di moda, una ninfa senza più la propria realtà simbolica. Bellezza come simulacro irraggiungibile:

Quante cose sei stata? Il ghirigoro delle piccole onde sull’arenile. La nuvola bianca che dà un po’ di sollievo e se ne va. L’alito di vento. Il grido del gabbiano. Un guizzo, un riflesso, un volo che taglia in due la tela del cielo. Una crema di spuma. Un filo d’erba. Il sole. Una foglia. Una formica. Una pantera. La spirale della conchiglia. Delle parole che non mi sono mai sognato. La madrepora dei fondali. La stella marina. La luna. (La notte, p.60)

La lingua, quindi, è camaleontica. Deve adattarsi, vestirsi, svestirsi, camuffarsi, correre dietro la realtà per fissare ciò che non si vede, che appare e scompare, che si frantuma in corpuscoli, quintessenze del nostro essere. Semplicemente, la polvere:

Dio, Dio, Dio, che parla ai profeti, che detta legge, che s’arrabbia, s’ingelosisce, minaccia, che parla ai profeti, fa stragi, le giustifica…ma dov’è? Dov’è Dio? Chi l’ha visto? Si è smarrito, anche lui, come le persone del programma televisivo? Si è nascosto nell’armadio? Qual è l’origine della polvere, la fontana? (La polvere, p.98)

In questo testo, poi, Caddeo definisce anche un’altra questione sottile e importante a proposito della funzione dei libri, e di uno in particolare, Il milione. Libro di viaggi, così concreto, così preciso, sembrerebbe, ma anche, soprattutto, iper-reale. Una dichiarazione di poetica, nel rapporto che Caddeo ha con il suo simulacro –  la scrittura – e con la funzione che la letteratura può ancora rivestire nel nostro immaginario collettivo: permettere lo svagare, la possibilità del viaggio verso una qualsiasi meta che esaudisca, almeno, il dolce naufragare2; o più modernamente, l’approdo al paese che ti assomiglia.3 La tecnica della visione si collega, quindi, a questa descrizione della polvere; perché  solo questo, poi, rimane di ogni viaggio siderale: l’esercizio del ricordo, attraverso una rivisitazione memoriale precisissima della pellicola riavvolta. Lo sguardo deve vedere nel puntiglio, fino all’enumerazione. Lo vediamo in molti passaggi in prosa. Per esempio:

Un diluvio di rami, di pietre e di polvere ruota precipitando in quel buco. E dopo quella di mia nonna pare la faccia del nonno, quella di mio padre, di mia madre, di mia sorella, di mia moglie, maschere di carnevale dei miei colleghi che sputano stelle filanti, sberleffi, grifi, gole spalancate, dentiere, un ferro da stiro, un prete, una slitta di legno, il muso di buc, lettere accartocciate, il gatto che cammina sulla ringhiera, un cavalluccio a dondolo che si spacca in due in tre, dei libri che cadendo aprono le pagine, e una a una si staccano, una va giù più lentamente, un’altra sale nell’aria vorticosa con una stella alpina seccata che si polverizza in una manciata di coriandoli che si trasforma in uno sciame che mi assale. (Foiba, p.108)

Sono arrivati nel corso della notte da tutte le direzioni. Si sono accampati nel Parco, lungo le vie adiacenti, tenendo in stadio d’assedio sedici condomini e centoquarantasei famiglie. Hanno piazzato potenti cassoni di balena, corni di bue e tamburi d’asino e hanno incominciato il rave degli animali. Più di quaranta ore di abbai, ugolii, ruggiti, latrati, ululi, frinii, belati, trilli, miagolii, nitriti, ragli, muggiti. (Invasione, p.78)

Ecco: nel momento in cui avviene l’invasione del già visto, o di ciò che potrebbe accadere,  assistiamo, quasi per difesa e timore, alla normalizzazione dell’eccesso, alla censura dello sguardo comune che nega l’apparizione dell’altro. La natura raziocinante e umanistica di questa poesia, insomma, dopo aver spalancato visioni di piccole apocalissi quotidiane, denuncia la possibilità e il rischio dell’esplosione della forma, così lo sguardo censorio improvvisamente alza il livello di guardia: “il dibattito continua, ma con pacatezza”. La realtà, insomma, non può s/vagare. E’, piuttosto, quella degli orologi, del tempo calcolato, dei calendari, delle meridiane, delle clessidre; un intero apparato per tenere a freno l’horror vacui della sparizione, ma anche, di ogni  velo che adombra; come se il potere della letteratura di ri/creare, a partire dalle forme, un’altra realtà, potesse appropriarsi  dell’abuso alchemico della trasformazione e assottigliare le fragili barriere che separano sogno e realtà.

E’ ciò che avviene nel celebre racconto La metamorfosi di Kafka, autore assai in sintonia con Caddeo: il venditore Samsa, ritrovatosi, una mattina, mutato in scarafaggio, provoca, senza volontà propria, un ribaltamento dei meccanismi psicologici che regolano il vivere quieto. L’irrompere dell’assurdo, così scandaloso alla vista degli ordini costituiti –  quello della norma data dal pater, e l’altro, pubblico, dello status di lavoratore salariato – non può certo sconvolgere la ratio sociale, alla quale persino gli affetti famigliari sono assoggettati. Ecco, allora, la  normalizzazione dell’irruzione, ottenuta attraverso la sottrazione del cadavere4, e cioè della prova del ribaltamento avvenuto; che è anche, più sottilmente, la cancellazione del simulacro oggetto di culto, attraverso il quale ogni familias e societas realizzano la connessione con le proprie reliquie medicamentose e il senso condiviso di un’idea di morte. Il sogno da pagare, dunque, è l’inganno del tempo, il tempo si misura per una minaccia:

la scansione meccanica del tempo
delle armi gemelle nasce dal fuoco:
i primi costruttori di orologi
fabbricavano bombarde e cannoni (orologi e cannoni 1300, p.176)

L’invenzione dell’orologio, suggerisce Caddeo, non è un’arma per liberarsi da Dio, ma l’inganno da accettare  per rinunciare a riconoscere l’altrove:

esce a mezzogiorno la processione
dei dodici apostoli che passa
davanti a cristo, s’inchina riceve
la santa benedizione… (p.180)

Insomma, è Dio stesso ad essere straordinario orologiaio e straordinario custode del tempo che ci misura. Ogni abuso può essere solo relegato alla categoria del monstrum, della letteratura fantastica. Si capisce allora perché scrivere, oltre ad essere un peso, è soprattutto un desiderio. Perché la realtà è l’orrido squallore in cui ci si trova costretti a vivere per esercitare il diritto/dovere dell’evasione. Che è, forse, l’esercizio più sottile e non dichiarato, della conoscenza. Se la lingua segnala il rischio dell’invasione, ha però anche la possibilità del ri-creare a partire da un’invenzione, data insondabile, che è la cosa in sé. Caddeo, quindi, non si discosta dalla realtà: si ferma pericolosamente sull’orlo del dirupo, descrive scivolamenti sospesi tra ossessione e Storia:

Scivolo, cado, mi rialzo. Mi attacco con le mani agli arbusti: all’inizio reggono, ma poi slittano, si contorcono, tendono a sottrarsi, oppure si spezzano e mi spingono giù. E più scendo e più quel rimbombo mi sembra un fragore che viene da sottoterra, un grido. (Foibe, p.102)

Una notte, prima della Seconda Guerra Mondiale, prima del nazionalsocialismo, prima della Grande Guerra, quando non era ancora famoso e faceva il vagabondo e l’imbrattatele, sognò di avere una maschera spaventosa sulla faccia, che lo faceva apparire molto diverso da come si sentiva lui dentro. (La maschera di ferro, p.74). Parla di crepe, di doppi nella nostra voce, di angosce, di ansie, di ossessioni, trattati, tuttavia, come figure, immagini concretissime:

hanno volti
parole normali
hanno ragione
ma non si può
non sentono
non hanno tempo
hanno circondato
hanno tolto
scavano
con aguzzi picconi
sono dentro (Le ossessioni, p.148)

Che poi assumano la forma di mostri, di altri, da una parte respinti perché pericolosi, o vuoti, dall’altra corteggiati come per un desiderio di ritorno a una pre Storia, a una pre vita sociali, è l’automatica conseguenza del potere che hanno i libri di costruire la verità:

La verità è un’invenzione dei libri.[…] Un’invenzione o un pretesto, una scusa. […] Chissà se davvero Marco Polo c’era stato in Cina e anche se c’era stato non fa differenza, il risultato è un libro. (La polvere, p.88)

Questo disagio dell’essere ad abitare il mondo, si esprime nel doppio dello specchio – che è anche, posizione sociale ed esistenziale dell’abitare oltre, dell’essere altro da se stesso, non per dannazione ma per ricerca di una fiammella che non si è ancora spenta, della possibilità  di essere in altro luogo, persino in altro da sé.

Intorno a casa mia, la casa dove abito da qualche anno, s’innalzano alte montagne, con pendii molto ripidi, che portano subito ad alta quota, tra le nevi eterne. […] Una volta la bufera non passava mai. Non ho neanche più contato i giorni tanto è durata. Non sono morto nemmeno quella volta. Sono rimasto fuori tre giorni e tre notti. Mi sono scavato una buca sottovento nella neve. […] Voi direte: ma che ci fa uno quassù? Io ho una missione particolare. Sto cercando qualcuno: mia figlia. E’ scappata anni fa dalla città in cui abitavamo, io e mia moglie. Un bel giorno non c’era più […]So che è qui. Anche lei sa che io sono qui. Mi lascia segnali della sua presenza: brandelli di pelo, bocconi di carne, impronte della sua misura, un guanto, biglietti anonimi. (I lupi, p. 232).

La sopravvivenza in altre forme, in altri anfratti, si esprime anche nei microcosmi delle città “dove crescere rigoglioso e asfissiato/un prato sottomarino” (esodo, p.208).

Insomma, “sdraiarsi sull’erba/guardare le stelle//dimenticarsi”, (La libertà, p.152). O ricordare qualcosa che abbiamo conosciuto prima di diventare gli oggetti museali che già siamo: l’odore di un altro mondo, per esempio, come fa lo scheletro di un dinosauro esposto nella teca di un museo di Milano.

Com’era rosso il sangue mio e soprattutto quello sparso delle mie prede. Come rubino, direste voi. Com’era giallo il sole, blu il cielo, bianca la brina. Gli abissi su cui volavo, immensi. Nera la notte, chiara la luna. Che silenzio, che fruscii, che tonfi, schiocchi, grida in quel silenzio. Diverso il modo di fare di tutti gli esseri viventi in quel tempo, primordiale, come dite voi. E io lo rammento come se fossi qui davanti, ora. Tutti si divoravano tra loro, sì, ma c’era il rispetto di certe regole che neppure ve lo sognate quante fossero e quanto fossero complicate. Nemmeno io me lo ricordo esattamente, anzi non ricordo quasi niente. (Archaeopterix, p.228).

Fra questi mostri ci sono anche le persone; s/personalizzate, i veri mostri del quotidiano, lì per lì pronti a scomparire nell’apocalisse di qualche quadro, in un altro mondo; come gli adolescenti italiani descritti con crudezza nei loro teatrini quotidiani, in attesa di qualcosa che potrebbe accadere ma che non accade. Come se la Morte fosse lì, dietro l’angolo, in attesa, anche se non attacca mai.

Urlano, battono le mani, sghignazzano, prendono a calci lattine, si abbracciano, si danno spintoni, schiaffi, si tirano i vestiti, camicie, t-shirt, fanno cinque passi e tornano sui loro passi, fanno piroette, si piegano, camminano di sbieco, mostrano i denti, hanno capelli molto lunghi o molto corti […] vanno e vengono con gli scooter, sgommano e frenano all’improvviso, fanno dietrofront, sinistdest, s’impennano in due in tre sopra e vanno sulla ruota posteriore per cento metri. Ma in realtà non vanno da nessuna parte e non sanno che cosa fare. Sembra sempre che debba accadere qualcosa di importante, di decisivo, di irreparabile […] ma in realtà non capita niente, non fanno niente, né di male né di bene. Girano intorno. (Adolescenti italiani, p.238)

L’altro, dunque, è sempre presente nelle cose. E’ l’ombra.

L’ultimo libro di Rinaldo Caddeo5, qui antologizzato, è in effetti un esercizio di descrizione delle ombre. L’ombra è lo sfarfallio che emana dalla materia. Ci sono ombre che non si possono descrivere. C‘è l’ombra per antonomasia, la più spaventosa: “bassa, bitorzoluta, torva e grigia, con il ventre increspato e villoso. […] Un contorno nero con un sapore agro in bocca”, p. 244. L’ombra è la zona più segreta, più indicibile delle cose. Necessaria. E’ imparentata con l’animalità, con ciò che sfugge, non vuole forma, ingerenza sociale, statuto; come nella bellissima prosa, Il furetto, che si scava una tana dentro il corpo dell’uomo;  segno di un’umanità luciferina; di odori, terra umida, ma anche male di vivere consapevolmente.

S’è scavato una buca, sempre più profonda, nel mio petto. Ha piegato, poco a poco, due costole, come il prigioniero le sbarre per fuggire, ma lui è entrato, s’è aperto un varco verso l’interno di me, tra il cuore un polmone. Si è incuneato nel mio corpo. Scava cunicoli, corridoi, stradine, piazzette. Ha raggiunto lo stomaco e ogni notte che passa si avvicina alla vita. […] Ogni volta che s’infila, allarga la sua tana nel mio corpo, un pezzetto dopo l’altro. Quelle contorsioni mi fanno soffrire e godere. Ma così non può andare avanti. La piaga s’è infettata e sempre più spesso ho sbocchi di sangue misto a pus. Non riesco a mandarlo via. Fa parte di me, non ne posso più…fare a meno. (Il furetto, p. 36)

Altrove Caddeo ci ricorda che animale vuol dire anima. Altrove ci dice di un urlo che giunge da lontano e che nessuno sente, un urlo che è come la richiesta di un aiuto, di una ferinità compressa, ingabbiata.

Ombra, quindi, minacciosa, “gli artigli della carne/il becco nel mio petto”, p.250.

Ombra che, inseguendo il corpo, pretende, chiede: “invece di condurmi/sempre mi insegui//[…] mia meta/mia muta//ombra/scopo della mia vita//negra/sorella gemella//che cosa vuoi da me?/che cosa ancora pretende//da me chi ti manda?”, p.252.

E’ un’opera pervasa dall’angoscia del Nulla che si nasconde dietro le forme, il viso che improvvisamente potrebbe apparire, orribile o inutile. La poesia è per Caddeo gioco carnascialesco dello s/mascheramento della morte: mi ricorda il senso di  certe feste dei morti diffuse nei paesi del sud america in cui le ossa, i teschi, vengono travestiti di colori e fiori e i morti invece di andarsene definitivamente, evocati, ritornano. La parola, quindi,  smaschera il vuoto, lo rinomina –   perché le forme vivono aggrappate, basta poco per sbriciolarle –  e il senso delle parole è qualcosa che il caos e il gioco si rimbalzano come una palla, una fionda6. Per il poeta, l’apparizione più terribile è quella dell’immagine, della propria immagine.

sempre ritorna l’immagine
[…]
non scompare
l’immagine riaffiora
da un fondo inesauribile
con la quiete della superficie
[…]
la vanità delle cose concrete
l’inquietudine delle forme profonde
basta un grido il guizzo di una rondine
un filo strappato si disfa sempre l’immagine
va in malora scende tra le tenebre
ombra tra le ombre piombo mercurio lavagna
un soffio che viene alla notte
eco di un boato sordo minerale (L’immagine, p. 258)

Insomma, un catalogo dettagliato ad uso e consumo di chi ha perduto l’anima o sente che la sta perdendo: ombre della Storia, ombra fisica e ombra portata (quella più nascosta, che emana dalle sfumature dei corpi).

Ombra come daimon, anima.
Essenza che s’incarna nei corpi come pipistrello, falena, mosca, farfalla.
Che appare e s’inabissa, si trasforma, viene ritrovata.
Perduta. Belva.

Pericolo del corpo trascinato verso gli abissi, senso incompiuto che si avvinghia alla carne, il becco nel petto.

Animula ferita, spaesata, perduta.

Anima che passa, trapassa come una promessa non colta delle cose che non abbiamo voluto portare a compimento e delle parole che non abbiamo avuto il coraggio di pronunciare fino in fondo.

Possibilità.
Disperazione.
Insonnia.
Assedio.
Senza forma.

In questo climax verso la descrizione di uno stato d’assedio, di spossessamento, l’ombra non si fa più ancella del corpo, sua nutrice e guida, ma ancella del timore del nulla, corpo risuonante di un male inudibile che “arriva da un groviglio di fantasmi/che piombano alle spalle”.

“Mia ombra”, infine, incatramata, come il genio di Manfred7 che sbuca dal pavimento e lo conduce verso il suo destino.

Libro che si chiude nella forma della preghiera “dacci la nostra ombra quotidiana”, “liberaci dal fastidio/che ci siamo portati dietro”; come un voler  rinunciare all’ombra, restituendola al tempo che si approssima alla notte:

liberami di te io
togli la spina
dorsale stacca la spilla
che tiene uniti e sollevaci
spaccati in due.8


NOTE

1 Condivido con questo poeta l’idea di un Narciso mondo che, specchiandosi, prende coscienza di sé e della realtà che lo circonda. La conoscenza è, in fondo, coscienza della propria morte; ma una morte condivisa col tutto che è l’essere, del quale noi stessi facciamo parte. Versione di questo mito senz’altro non in linea con la modernità, a partire dalla funzionalissima reinterpretazione fattane da Freud.

2 Leopardi, L’infinito.

3 Baudelaire, Invito al viaggio.

4 E’ la negazione nichilista della funzione del sepolcro e quindi dello smantellamento dell’ultimo baluardo consolatorio: il cadavere, o la casa dell’anima, è ridotto a pura char ; che è tale in quanto si nega la pietas, sempre rivolta alla memoria dell’essere vivi in sé. “gregorio samsa da sogni agitato/si trovò una mattina//trasformato in oblungo osceno insetto/dalle multiple tremolanti zampe//sdraiato sul duro dorso nel suo letto/il ventre a segmenti ricurvo e bruno.

la sveglia ticchettava sul cassetto/tardi: il treno era partito, che fare?//samsa si gettò con tutte le sue forze/fuori del letto, s’udì un forte colpo//non scoppio o schianto ma un sordo tonfo:/picchiato aveva il capo con dolore.

Quando videro com’era, la madre/svenne, il padre si mise le mani/nei capelli, fuggì il procuratore./lui imparò a camminare sui muri//a raggiungere il soffitto e restare/a spiare la finestra a testa in giù”, Siren’s song, p. 192.

5 Dialogo con l’ombra, La vita felice 2009.

6 Si tratta della prima pubblicazione di Caddeo, Le fionde del gioco e del vuoto, in cui appaiono molti temi poi sviluppati nelle opere successive.

7 Abate:Chi sei tu, ignoto essere? Rispondi!  Spirito:Il genio di costui. (Byron, Manfred).

8 Dialogo con l’ombra, La vita felice 2009.

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Sebastiano Aglieco è nato a Sortino, in provincia di Siracusa, il paese degli asini della Cavalleria Rusticana. Ha vissuto tra i monti e il mare, in Sicilia, fino a 24 anni, poi accasato, ma per sbaglio, a Monza, dove non ha messo mai radici. Da qualche anno è ritornato a insegnare a Milano, nella scuola elementare. Ha pubblicato diversi libri di poesia. I primi, praticamente clandestini, poi Giornata, La vita felice 2003, con una nota di Milo De Angelis. A seguire: Dolore della casa, Il ponte del sale 2006, Nella Storia, Aìsara 2009, e la raccolta di saggi Radici delle isole, La vita felice 2009, che raccoglie il lavoro critico svolto in questi anni, soprattutto nella rete. Collabora con riviste di poesia (La Clessidra, La Mosca di Milano, Ali, Puntoacapo). Suoi testi e interventi sono presenti in plaquettes d’arte, realizzate in sintonia con artisti visivi e musicisti, volumi collettivi, riviste e in rete. Soprattutto, forse, si è occupato di educazione: scrittura e teatro. Ha organizzato eventi per la diffusione della poesia in collaborazione con l’associazione delle Ali, Millegru di Dome Bulfaro, Land di Stefano Massari. Il suo blog è Compitu re vivi (miolive.wordpress.com) dove continua il lavoro di critica sulla poesia contemporanea.

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