Poesia/Recensioni

Mauro Germani, “Terra estrema”, L’arcolaio, Forlì, 2011

 di Sebastiano Aglieco

I corpi sono qui. Ricominciano e sono sempre qui. Quali corpi? Quelli vicini alla prima voce che sempre li nomina, che li fa accadere. Corpi fantasmi che vanno e vengono senza un destino: vento che ti cancella. Questo libro parla della natura inconsistente, eppure drammaticamente concreta, dell’essere. I corpi appaiono improvvisamente: per attrito e per destino. Rimane un’aurea, qualcosa che  è presente nello specchio rovesciato del mondo, che non occulta completamente il doppio di noi, la bellezza che non sai dire. Costui che fa venire è il vento pentecostale, nella natura di forza senza direzione, dispersiva, che può ricondurci improvvisamente al Nulla o farci trasecolare lentamente, nel corso dell’intera vita, cosicchè il nome di noi rimane misterioso per sempre e il pianto abita segretamente le parole.

Questa bidirezionalità della freccia –  apparire e scomparire, scomparire e apparire – non riesce a definire l’essere, che, radicato nel presente, rimane densamente avvolto nel rischio di una  nostalgia, di “una musica più vera,/una vita felice/dentro la vita”, p. 23. Ogni domanda, dunque, è sempre ancorata al peso dell’origine, alla leggenda dell’origine, in cui non siamo né morti né vivi. Tutta questa mancanza ontologica, “Adesso che Dio non c’è/ed è senza nome”, p. 25, questo adesso, presuppone un non dove, un non tempo in cui, forse, se tutte le cose esistevano nell’amalgama primigenio, un’ipotetica parola, in quello stato,  non avrebbe potuto descrivere il Nulla. E’ la parola del mondo, invece, ad essere necessaria per la frattura, per la constatazione di un dolore della casa (nostalgia), e di uno stato incodificato dell’essere (malinconia) che la pervadono senza riparo, senza tana, fino alla notte.

Noi siamo ancora, dunque, “questa vita/che nella vita/abbaglia e spaventa”, p. 26, sogno dimenticato in cui qualcosa è avvenuto, cancellato dall’alba: visioni, antichi vessilli, fonti alle cui rive abbiamo bevuto e sognato; boschi e colline Noi “non sappiamo il corpo/l’assoluta verità del sangue”, p. 28. L’appartenenza alla terra è desiderio, “essere veramente/le nostre parole”, p. 28; essere una luce, non essere “il corpo ignoto/del mondo”, p, 29. Questa evanescenza dell’apparire avviene concretamente nel corpo del mondo, a Milano, in cui sotto la resa del cielo, attenderemo il giudizio, una discesa a colpi di nuvole dopo aver atteso per secoli “qualcosa,/come un respiro,/il nome perduto/del mondo”, p. 31. Noi vediamo il dio dell’assenza scolpito sulle facce dolorose dei mortali, come un sigillo, un barlume appena  che impregna di sé tutto l’universo, dal quale noi tutti veniamo e nel  cui corpo vorremmo ritornare: un flusso lento come la nebbia, un estinguersi verso la soglia dove tutti i morti ci attendono. Ma senzienti. Cos’è vivere allora, se non aspettare di morire? Cos’è, dunque, guardare, se non sapere di avere dimenticato? Cos’è, dunque, scrivere poesie, se non confermare che le parole non ci spalancano nessuna porta, non ci predispongono a nessuna conoscenza se non, piuttosto, a una lucida sconoscenza, alla percezione di una vita nella vita?

Avessi mai sentito

davvero il mio cuore,

scoperto il mio volto,

la mia vita in lui.

p. 36

Ecco allora, necessariamente, l’altro, l’oltre. Percepire la differenza nell’altro, sentire che la domanda non abita noi ma la realtà tutta che ci investe col peso del suo silenzio.

Sei tu la domanda

l’imperscrutabile notte

la carne ferita, il morso

che ti sottrae alla luce.

Sei tu la parola

il verbo impronunciabile

il lamento incessante, il grido

che scuote l’universo.

Sei tu il silenzio

che toglie il respiro

il cielo muto

il dio assente nell’ombra.

p. 39

L’incontro: “Forse due corpi,/due esistenze,//l’amore”, p.43. Ecco: in questo passaggio impercettibile, il soggetto si sdoppia: vanno…ignari li vedo…eravamo il pomeriggio… L’essere senza essere, come pura esistenza delle cose che non si domanda ma semplicemente è. “Essere come si può/nell’ombra/del mondo/senza sapere nulla”, p. 46. E’ la Storia la casa dell’essere, questo grande scenario di battaglie e omicidi in cui i corpi sono esplosi senza memoria, rinunciando al loro confine. La battaglia è il luogo della massima sottrazione prima che la voce incarnata si faccia nuovamente voce senza più parole.

E’ qualcuno il mio corpo

ignota carne

in me di me

respiro e battito

buio, circolo

di sangue

qui, altro

nell’altro

in me

per me,

attrito e

azzardo muto,

pensiero senza

pensiero,

casa sempre

segreta

altrui essere

in me

di me.

p. 52

Il corpo, ora plurale, sa che non può esistere da solo, sa che contiene in sé i germi di una moltitudine, di un necessario doloroso azzardo di tolleranza: nel percorso delle vene, nell’intrecciarsi delle voci che, parlandosi, proclamano il loro ineludibile assassinio. Nel successivo passaggio di questa metamorfosi, ora il corpo è la parola, il suono amputato, “Verbo perduto da Dio/verbo senza Dio/che nella notte chiama/e nessuno risponde”, p. 55. Parola che  il poeta ha accolto nel poco sangue. Lettera a un padre. Ci sono ferite, promesse disperse, persa memoria…dei nostri corpi stranieri. E poi si preparano mutazioni del paesaggio, come per l’avvento di un tempo finale. La natura è descritta nella sua sospensione notturna, come nell’improvvisa minaccia di un lampo. Un andarsene di tutte le cose, “un salto d’addio/un gesto solo/aperto nel vuoto”, p. 57.

Gli alberi tremano

in un’onda celeste,

dicono sì e no

alla falce argentata

(…)

gli anelli neri

che il tempo prepara.

p. 59

Qualcuno fa girare improvvisamente le cose al contrario: le nuvole in terra, gli alberi in cielo, un confine spezzato. Anche la scrittura abita questa cancellazione delle cose, lettere scritte su carte di sabbia, eppure, sempre, riscrittura necessaria sui corpi  martirizzati delle forme che abitano il mondo.  “Scrivere.//Scrivere sempre/il già/cancellato”, p.67. E infine parlano le voci: La Terra, con i suoi corpi sepolti; la Notte che nasconde le macchie di sangue presenti in tutte le case; il Vento, innamorato di ogni corpo e di ogni terra e mai veramente possessore dell’essenza dei corpi; il Cielo, col suo corpo immenso, patria distante dei corpi; il Fuoco che brucia e divora la carne del mondo; la Neve, la grande misericordiosa, un luogo di umiltà e di grazia; gli Animali, i dotati di anima sensitiva, i veri custodi dell’origine, di un pensiero primordiale che a volte, ancora adesso, sentiamo in noi, uomini illusi d’esistenza

Questo grande percorso di ricerca di senso che il libro compie nel non senso della vita, nel dolore del mondo, con la pietà e la durezza alle quali non può sottrarsi nessuna grande voce di poeta, questo lungo peregrinare negli anfratti del corpo, nelle pieghe delle frastagliate voci che lo abitano, si conclude in una stanza; nella stanza estrema di un incontro, di uno spazio segreto. Si incontrano due corpi segregati in un perimetro, come una prigionia volontaria, una reclusione voluta o subita. “Lui ripeteva il dolore di quelle scale come fosse per sempre”; “Lei aveva pochi minuti, oppure una vita intera”, p. 81. “C’era stato un giuramento lì, un attimo assoluto. C’era stato un amore incurabile, la luce tremante dei volti, la strada lontana”, p. 82. “Lei vendeva il suo corpo per essere infelice e per poter dormire”, p.83. “Lui era un poeta e le sue parole, le sue domande non uscivano da quella stanza”, p.84. Lui le diceva: “Ti mentirò sempre il male, l’urto delle moltitudini”, p.85.

Si potrebbe raccontare esattamente questo accadere nella stanza, questo lento consumarsi al confine del baratro, ubbidienti a un comando, a una oscura condanna. Chè, in fondo, tremendamente, banalmente, questo siamo: ombra, luce, sogno, ferita. Mauro Germani ce lo dice con spietatezza e con dolore, portandoci al confine di noi stessi, in quel punto del nostro corpo in cui vediamo vacillare tutte le costruzioni mentali, eppure mentiamo per resistere ancora alla carie dei muri, dentro la patria segreta delle lenzuola.

 


3 thoughts on “Mauro Germani, “Terra estrema”, L’arcolaio, Forlì, 2011

  1. Leggo nelle prime righe il sostantivo “aurea”. Che cos’è un’aurea? A me risulta sia un aggettivo che in questo contesto non significa nulla. Forse il sostantivo da usare è “aura”?

  2. bellissima nota Sebastiano, di un libro che sicuramente leggerò presto. sarà una priorità.
    in bocca al lupo a Germani a te e a questa proficua casa editrice guidata da un editore d’altri tempi (che coccola i suoi autori, vede nascere e segue i loro progetti).

Lascia un commento