Arte/Saggi

Il frammento e il commento (su Grafemi di Giuseppe Zuccarino)

 

di Antonio Devicienti

zuccarino_grafemi (1)Scrive Nanni Cagnone in Discorde (Lavis, La Finestra Editrice, 2015): Il cosiddetto frammento non è affatto incompleto, ma la sua interezza sfugge quasi sempre ai professori (pag. 25). Ebbene, in Grafemi (I libri dell’Arca / Joker, Novi Ligure, 2007) l’autore Giuseppe Zuccarino non solo conferma il pensiero di Cagnone, ma scrive un libro di magistrale bellezza e inesauribile ricchezza sul tema del frammento quale genere letterario ed esercizio del pensiero, libro composto esso stesso di frammenti.

Diciamo subito che scrivere per frammenti non è perdita o mancanza, difetto o rinuncia ad una pretesa completezza, ma metodo conoscitivo. E metodo in tutto e per tutto sperimentale, se è vero (come in effetti è vero) che il frammento è interrogare l’opera d’arte e la realtà, gettarvi sempre nuovi scandagli, problematizzare. Non è un caso che l’intero libro si riveli un’armoniosa Wanderung per innumerevoli stazioni (ogni frammento è una stazione) nell’ebbrezza felice che dà la libertà della mente quando si rivolge a luoghi, artisti, opere ch’essa ama seguendo itinerari non costrittivi e che nulla impedisce poi al lettore di seguire secondo propri e sempre rinnovati schemi.

Emerge subito, in questo libro, accanto all’arte di scrivere e raccogliere frammenti, la riflessione intorno all’attività del commentatore: Scriveva Luciano di Samosata che “chi assiste a una danza deve essere in grado di comprendere il muto e udire il taciturno”. Ma ciò vale anche per il commentatore, il quale sa bene che non potrà esimersi dall’ascoltare e interpretare, oltre alle parole, anche i silenzi del testo (pag. 6).

Quella del commentatore o scoliasta è figura antichissima che nell’umile servizio al testo cerca di illuminarlo e spiegarlo e deve, allora, essere persona dotata di cultura e di sagacia, ma anche di una considerazione e di un rispetto nei confronti del testo che, leggendo le riflessioni di Zuccarino, mi portano a pensare all’atteggiamento di Ugo di San Vittore quando s’adoperava nella “vigna del testo” o a tutta la schiera dei commentatori arabi di Aristotele dalla quale è emerso poi il gruppo (eccelso) di quei filosofi che ancora oggi costituiscono uno dei pilastri anche del pensiero occidentale; e il commentatore può trovare nella scrittura per frammenti (è qui, probabilmente, la giuntura tra commento e frammento) quella libertà necessaria per trascorrere di testo in testo, di tema in tema, in un vagabondaggio della mente e della scrittura che dona piacere; lo stesso Zuccarino è autore d’importanti raccolte di saggi e ogni suo saggio applica il rigore del metodo critico, si serve di ricchissima documentazione, cita puntigliosamente le fonti; in Grafemi egli raccoglie una vasta messe di frammenti che fanno sorgere l’idea che possa esistere un testo dalla fantasmatica e fantasmagorica proprietà di raccogliere in sé tutti i testi finora scritti e che continuamente si arricchisce perché continuamente vi si aggiungono nuovi testi (chiamatela biblioteca de Babel alla maniera borgesiana o rayuela/juego del mundo al modo cortazariano) e che al commento di tale testo è possibile applicarsi forse soltanto scrivendone per frammenti, cogliendo così le interconnessioni tra singoli testi (non solo verbali!) apparentemente lontanissimi tra di loro, pensando al frammento come ad una figura frattale che contiene, nelle sue ridotte dimensioni, tutto il testo (tutto l’universo in continua espansione), una sorta di aleph nascosto nel sottoscala della mente che non è, però, il momento decisivo e conclusivo in cui si arriva alla conoscenza totale, ma il momento di un’intuizione che dovrà poi per forza essere cercato di nuovo e di nuovo ripetuto, secondo una concezione del pensiero in continuo moto, che si nutre (come dire?) della nostalgia di aver vissuto e sùbito perduto quel momento felice e liberatorio dell’intuizione.

I frammenti, nel loro disporsi in serie, non mirano a conseguire l’unità armonica di un discorso, ma semmai la pluralità dissonante di un discordo (pag. 7), che poi non è necessariamente disarmonia, ma, ancora, il trovare connessioni non immediate né ancora accertate o consacrate anche tra ciò che è apparentemente inconciliabile o lontanissimo, superare abitudini di pensiero consolidate o sclerotizzate. Ma tutto questo può accadere solo se la mente è vigile e attiva, pervicacemente impegnata a scorgere ciò che è celato o inapparente: Nei sogni di chi scrive frammenti compare a volte l’immagine di un lettore ideale, capace di leggere «non moins dans les blancs divisant le texte que dans le texte lui-même» (Mallarmé) (pag. 7).

E il frammento sa vivere di vita propria: Ci sono dei frammenti letteralmente insopprimibili: chi li scrive può esserne insoddisfatto e gettar via il foglio su cui li ha annotati, ma qualche tempo dopo sarà costretto, suo malgrado, a riscriverli (magari con le stesse parole), e dovrà dunque rassegnarsi alla loro conservazione (pag. 9), dal momento che il frammento è anche un nucleo solidissimo di pensiero, un punto d’arrivo ineludibile dal quale subito ripartire. Nella spoliazione da ogni ridondanza, nel necessario e raggiunto rigore della forma e del concetto Un frammento è come una foglia ridotta alla sola nervatura (pag. 15).

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Luisella Carretta, Disegni di volo

Leggiamo allora: Il problema col quale il commentatore deve confrontarsi di continuo si trova riassunto in una lapidaria formula di Nanni Cagnone: “Il dettaglio è smisurato” (pag. 26).

Lo stimolo che può provenire da un libro come Grafemi è, anche, questo potersi muovere attraverso tali cercati momenti e dettagli e il fare esperienza di una flânerie che, a lettura terminata, non lascia affatto una sensazione d’incompiutezza o caoticità, ma al contrario di complessità e d’arricchimento (come quando, scorso lentamente e assaporandone ogni pagina, un atlante si chiude con il ricchissimo indice dei nomi delle località o come quando Benjamin accumula un numero enorme di glosse e frammenti per addivenire al suo Passagen-Werk e veramente si deve percorrere un passage dopo l’altro per attraversare l’universo-Parigi, ogni passage essendo però a sua volta un universo e una connessione tra universi) e il dispiegarsi del commento insegue, per frammenti, il senso (meglio: i sensi) dell’opera commentata.

In Note al palinsesto (Novi Ligure, Edizioni Joker, 2012: altro libro magistrale nella sua analisi della nostra contemporaneità) Zuccarino scrive in modo esemplare: Di per sé paradossale, infatti, è la natura dell’atto commentatorio, che, muovendo dal presupposto della infinita ricchezza di senso del testo cui si rivolge, si impegna nell’inesauribile compito di esplicitare l’implicito, e finisce da ultimo con l’alimentarsi di sé, dato che, come avverte l’autore, “il compito di chiosare il testo non può non comportare l’ulteriore ufficio di chiosare le chiose”.

Ma analoga, a ben vedere, è la vocazione di ogni scrittura, così che scrivere equivale in un certo senso a commentare. Lo sapeva bene Manganelli, il quale una volta, in una conversazione con amici (teste Ginevra Bompiani) aveva lapidariamente affermato: “La scrittura è glossa, commento. Noi non diciamo, ma aggiungiamo” (in Il ritorno del commentatore, op. cit., pag. 40). Dedicato a Nuovo commento di Manganelli, questo saggio è inserito in un libro che a sua volta attraversa gli autori preferiti da Zuccarino (Derrida, il Klossowski disegnatore, Artaud, Alechinsky, l’immenso Giacometti, le splendenti chirografie chariane), indagandone spesso il rapporto con l’immagine, con la pittura e il disegno, con la pagina stessa intesa concretamente quale foglio di carta da ricoprire di scrittura e d’immagini.  

Tornando a Grafemi, precisa, e a ragione, Zuccarino: A volte i margini irregolari del frammento possono far sorgere il sospetto che altrove esista la parte mancante, quella che, affiancata, combacerebbe in ogni punto, reintegrando l’unità. Ma in effetti non è così: neppure in questo modo il frammento si lascia ridurre a simbolo (pag. 8). Infatti: Ciò a cui tende il frammento è a fissare ogni volta qualcosa di fuggevole, che si mostra solo quando è sul punto di svanire: questo tipo di scrittura, dunque, è strettamente legata ad una apparizione momentanea, ovvero ad una sparizione imminente (Caproni univa i due concetti in un solo vocabolo, quando parlava di “asparizioni”) (pag. 14). E poi: Solo un audace frammentista come Friedrich Schlegel poteva sostenere che “la forma della critica (…) è la massa di frammenti”. E tuttavia nulla vieta di considerare il frammento (o meglio, la serie di frammenti) come una delle modalità essenziali della scrittura critica (pag. 21).

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Luisella Carretta, Itinerari verso nord

Il frammento dialoga con lo spazio bianco del foglio e da qui Zuccarino formula una riflessione davvero interessante: I “bianchi” che separano i frammenti fra loro sono essenziali. Non soltanto perché le annotazioni di questo genere si segnalano proprio per il fatto di essere brevi, di non voler invadere la totalità della pagina, limitandosi ad occuparne un’esigua porzione, ma anche perché ogni frammento conduce il lettore verso lo spazio bianco. Ciò non va inteso nel senso che la riga vuota assuma il valore di un’amplificazione o prolungamento ideale delle parole scritte. È in causa piuttosto il fatto che il frammento presuppone la necessità del proprio interrompersi, per cedere il passo ad altri, che verranno a loro volta scalzati dai successivi, fino all’interruzione autentica: non la fine del libro (che non c’è, trattandosi di frammenti), bensì quella dell’esistenza di chi lo scrive (pag. 66).

Affascinante è poi il rapporto sia psicologico che fisico e con l’atto dello scrivere e con il materiale scrittorio: Chi scrive di sera, alla luce della lampada da tavolo, vede la punta della penna che, nell’avvicinarsi al foglio, va a congiungersi con la propria ombra. Si ha qui una metafora della scrittura frammentaria, che vorrebbe accogliere in sé anche il lato oscuro, notturno, delle parole (pag. 52); La penna sfiora la carta, come in una carezza amorosa che, per quanto lieve e appena accennata, lascia comunque una traccia (pag. 58); Scrivere frammenti di sera significa guardare ora il foglio, nella breve area del tavolo illuminata dalla lampada, ora il buio circostante, come se proprio da quest’ultimo si attendesse un suggerimento; poi tracciare parole che, per paradosso, saranno attorniate non dal nero, ma da quel bianco che, immancabile, precede e segue ogni frammento (pag. 64); I fogli fabbricati a mano sono spesso ruvidi e porosi: assorbendo molto l’inchiostro, rendono antiestetico l’uso del pennarello ed obbligano a ricorrere a una penna a punta fine. In tal modo ricordano a chi scrive frammenti che non gli si chiede di lasciare sulla pagina un segno profondo, ma piuttosto di accettare che il pensiero scivoli via veloce, senza quasi lasciare traccia (pag. 81). 

Decisiva mi appare l’affermazione seguente: Se un libro di frammenti può esistere, è solo a partire dalla coscienza che questa modalità di espressione non rappresenta, nel caso specifico, qualcosa di accidentale o fungibile, dalla coscienza cioè che “il frammento non è uno stile o uno scacco determinato, è la forma dello scritto” (Derrida) (pag. 70).

Mi preme dire che il percorso di ricerca di Giuseppe Zuccarino attraversa in particolare la cultura francese e predilige l’intersezione tra le arti: bisognerebbe leggere un libro splendido e stimolante come Da un’arte all’altra (Novi Ligure, Edizioni Joker, 2009) dove, indagando i rapporti tra Char e De Staël, tra Klossowski e Carmelo Bene, tra la scrittura e i mondi dei cristalli in Roger Caillois, egli indaga in tal modo l’interscambio continuo tra i più diversi ambiti dei saperi e delle arti, oppure Il farsi della scrittura (Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2012), complesso lavoro saggistico dedicato a Claude Simon, a Pascal Quignard, a Maurice Blanchot (torna spessissimo Blanchot nella ricerca di Zuccarino), a Joyce e Derrida, ad Artaud e Derrida… Ecco: in questi libri la forma-saggio s’offre nel suo rigore scientifico, proponendosi come testo conchiuso, anche se, come dev’essere, ogni saggio apre nuovi fronti d’indagine e contribuisce a problematizzare un’opera o un autore. In Grafemi l’applicarsi all’arte difficile del frammento comporta anche una scelta di stile che si colloca in un delicato equilibrio tra icasticità e ironia, tra lieve accenno e spinta immaginativa. Se nel saggio la lingua e lo stile di Zuccarino sono limpidi, diretti e asciutti, nei frammenti la stessa asciuttezza e limpidezza può giovarsi di una libertà maggiore di toni e di temi, per cui lo studioso rigoroso è, contemporaneamente, scrittore e poeta, artista che s’abbandona ad un gioioso inseguire le proprie predilezioni: ché Grafemi è anche un diario intellettuale che segue percorsi e letture, che addensa frammenti-riflessioni e frammenti-commenti attorno a nuclei tematici definiti: dal momento che Il desiderio di scrivere ha l’ostinazione dell’onda, che sempre si spinge ad invadere lo stesso lembo di spiaggia e sempre è costretta a rifluire (pag. 61). Ecco allora l’arte di Luisella Carretta, il monastero di Saorge, la Fondazione Burri a Città di Castello, i prediletti Blanchot, Quignard e Giacometti e poi riflessioni su pensieri di Nietzsche, Char, Jabès, Flaubert, sull’arte di Tàpies, di Gastone Novelli…

L’artista genovese Luisella Carretta è, tra l’altro, autrice di acquerelli nei quali ha raffigurato (dopo lunghe osservazioni) le rotte che abitualmente seguono i gabbiani nel cielo di Genova o gli uccelli rapaci in alta montagna – attenzione: vedere volare gli uccelli non significa vederne il volo: esistono forme che accadono sotto i nostri occhi e che noi non vediamo o non identifichiamo (il nostro vedere è così limitato…) e  Luisella Carretta dipinge i tracciati di quei voli, rende visibile l’invisibilità delle rotte – forse come il frammento “segna” una rotta del pensiero. Carretta ha anche realizzato quaderni costruiti a mano che raccolgono acquerelli e collages le cui pagine sono spesso intervallate da fogli trasparenti sui quali sono a loro volta tracciati segni, parole e disegni, per cui ogni pagina può essere guardata o da sola o tramite il foglio trasparente sovrapposto, confermando l’idea secondo la quale l’opera d’arte non è statica e vive dell’intervento (anche interpretativo) di chi la contempla e/o legge.

A Saorge (dipartimento francese delle Alpi Marittime) il monastero ex-francescano ospita intellettuali e artisti che vogliano passarvi un periodo dedicato allo studio, alternando ore di meditazione e ricerca personale a ore di vita comunitaria (ivi compresi i pasti); le pagine che Giuseppe Zuccarino dedica alla propria esperienza di studioso ospite a Saorge sanno restituire il silenzio e la solenne armonia che accolgono coloro che percorrono i corridoi, l’orto dei semplici, il chiostro; le celle e la cucina in comune, così come la biblioteca rappresentano i due poli necessari e perfettamente armonici di un’esperienza che sa essere contemporaneamente di eremitaggio intellettuale e di condivisione, mentre gli ambienti degli ex essiccatoi del tabacco della Fondazione Burri a Città di Castello sembrano suggerire anch’essi quest’esigenza di meditazione entro spazi rigorosi. Il dominio assoluto della materia e della forma da parte di Alberto Burri porta Giuseppe Zuccarino a definire “classica” l’opera del maestro umbro, cosicché i frammenti zuccariniani, emozionati e ammirati, si costituiscono a commento di un’opera artistica totalmente inchiavardata nel proprio tempo, ma portatrice di riflessioni e suggestioni metastoriche.

L’arte di Burri è sempre, indipendentemente dalle tecniche e dai materiali usati, grande pittura classica, perché si regge su un controllo assoluto dei mezzi espressivi. Inoltre si tratta di una pittura tendenzialmente sacrale. Lo si percepisce bene visitando la Fondazione Burri di Città di Castello, dove le opere sono esposte nelle condizioni ideali di visione (condizioni predisposte dall’artista stesso). Qui molti quadri rivelano un’imponenza da pale d’altare, mentre i grandi cicli della maturità – specie quelli in cui domina il nero, da solo o unito all’oro – trasformano i capannoni industriali che li ospitano in altrettante navate di chiesa (…) (pag. 39)

E non meravigliano le sollecitazioni che Zuccarino riceve anche dall’opera di Antoni Tàpies e attorno alle quali riflette: la superficie del muro, così come quella dei cretti di Burri, possiede notevoli affinità con il testo da interpretare e commentare, testo che è contemporaneamente opaco, resistente e, in apparente contraddizione o paradosso, poroso e permeabile.

Nei suoi lavori sono presenti tutti gli stati della scrittura: dal semplice scarabocchio ai segni di un alfabeto inesistente, dalle lettere isolate alle parole, dagli indicatori di operazioni matematiche ai numeri. Ciò crea di per sé una molteplicità di possibili letture: ad esempio, di fronte a due tratti che si incrociano ad angolo retto non si potrà mai stabilire con certezza se costituiscano un semplice elemento pittorico o una croce, un segno di addizione o l’iniziale (non di rado stilizzata in quella forma) del cognome dell’artista (pag. 29).

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Fondazione Burri

Giacometti è altro artista che calamita in maniera radicale l’ammirazione e l’attitudine commentatoria di Zuccarino, proprio perché lo scultore e pittore di Stampa possiede a sua volta questa predilezione per il frammento: un volto, una gamba, una figura in piedi, il riconoscibilissimo tubo della stufa dello studio parigino che affiora sullo sfondo di molti ritratti, il cane, il gatto esilissimi sembrano essere la concretizzazione scultorea o pittorica d’ineludibili frammenti che Giacometti enuclea dalla realtà della quale cerca sempre e disperatamente di penetrare l’essenza più profonda, abissale, insondabile. È come se proprio l’insondabilità sfidasse e attraesse Alberto Giacometti, così come la forma-frammento di Giuseppe Zuccarino discende nel buio del ricercato e interrogato senso: È importante il fatto che molti dei dipinti realizzati da Giacometti nell’atelier – e soprattutto i ritratti – mostrino nello sfondo le pareti grigiastre, la stufa col suo tubo un po’ sbilenco, le tele appoggiate a terra contro il muro, le statuette posate su ogni superficie disponibile. È vero che, a differenza della figura umana che vediamo in primo piano, e soprattutto del volto di essa, ciò che sta dietro appare appena abbozzato, ma la precisione dei tratti (infallibili anche quando sono delineati in modo sommario) consente di individuare ogni singolo oggetto, e a volte persino di dare un nome alla scultura che intravediamo (pag. 67).

A lettura ultimata ci si rende conto che Giuseppe Zuccarino è riuscito a dimostrare (anche attraverso la sua scrittura) che l’atto interpretativo della critica non deve rinunciare allo stile e porsi, a sua volta, come accadimento artistico. Fatto fondamentale, perché stabilisce il legame irrinunciabile e fondante tra letteratura e interpretazione, riconosce l’opera quale necessariamente aperta e consegnata al critico-lettore.

E sena narcisismi, né esibizionismi intellettuali: Capita a volte al critico di ammirare dall’esterno l’opera di un autore, al modo in cui si apprezzerebbe un edificio bello ma privo di porte. Poi, però, continuando l’esplorazione, delle aperture si rivelano di colpo nei muri, per lo stupore di chi era già passato una prima volta di fronte ad esse senza notarle. La sorpresa e il piacere aumentano quando ci si accorge che le porte non immettono in un unico ambiente, ma che ognuna dà accesso in una stanza diversa. Solo allora il visitatore comprende quanto poco avrebbe potuto conoscere dell’effettiva bellezza dell’edificio se si fosse limitato a osservarne, come pure gli era parso di dover fare, l’aspetto esteriore (pag. 21).

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