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Librazione di settembre: Bernardo Pacini

di Diego Bertelli

1370430_10151641386478027_120406416_nTi capita tra le mani la raccolta di versi di Bernardo Pacini e la prima cosa che ti viene in mente è il punto interrogativo. Ti domandi perché non ci sia nel titolo, Cos’è il rosso (Edizioni delle Meridiana, 2013). Si tratta di una frase che resta in sospeso, in cui la componente interrogativa e quella dichiarativa sembrano agire l’una con l’altra, ma senza interferenza; anzi, con una possibilità di senso in più. Pacina gioca su un ritardo funzionale, che sposta la domanda dalla copertina al primo componimento, Séma-phoròs, il protatore di segno: «La mia fortuna è che so sterzare d’istinto / starnazzo al pedone: “Idiota ma lo sai cos’è il rosso? E riparto paonazzo / non prima / però / di sentire lieve / ma d’istinto: E tu / lo sai cos’è il rosso?”». La ricerca del significato a partire dal segno è allora sottoposta a un gioco di specchi: finisce che il «tu» corrisponde all’idiota, il guidatore al pedone. In Pacini il colore rosso è in senso stretto la «rubrica» sotto cui scorrere le tante voci di un «libro della memoria» sul quale l’occhio si posa e contro cui inevitabilmente si scontra: dal caffè al tabacco Kentucky, al succo d’arancia, alla radio, alla città «[…] vedo rastremare Firenze / spogliarsi e sui fianchi mostrare le smagliature / darsi roca a una donna / bloccata sull’arsi del passo / E voi che mi fermate / sapete a chi state / chiedendo aiuto / per far ripartire l’auto? A un dio, a un dio cieco / a un muto col megafono / a un sordo che scrive sinfonie / a un dante che ha lasciato virgilio / per google (In sezione aurea p. 36-7).

Specialmente la sete e luoghi ricoprono un ruolo importante, garantiscono alla memoria un ciclo, quasi un ritmo, e occhi aperti. L’ultima prosa della silloge è in questo senso uno dei testi chiave di Pacini: è il Rosso, per così dire, anche perché è l’unico dei tre inserti in prosa della raccolta riportati nell’indice:

Non mi ero mai accorto (per davvero, intendo) che, prima di dormire, bevo mezzo litro d’acqua frizzante. Ed è per questo motivo che poi la notte mi alzo per andare al bagno e non mi riaddormento più. La mattina dopo me ne lamento e questa accidia beota regna sovrana per tutto il giorno, finché, a mezzanotte e un quarto, non mi riattacco alla bottiglia di acqua frizzante. Non mi ero mai accorto (per davvero, intendo) che, di solito, impugnando la bottiglia d’acqua frizzante, con le dita della mano destra premo sulla plastica come per suonare una scala discendente con la tromba. Poi la bottiglia finisce nel sacchetto della plastica, io vado a letto e alle tre sono nella solita, plateale posizione: gambe larghe, mano appoggiata al muro.

Una fanfara per la notte: per i risvegli, i richiami, i sudori, i mugolii, le macchine che scandiscono il sonno del viale. Non ho mai saputo di suonarla, ma ogni notte, finché bevo a boccia mezzo litro d’acqua frizzante, si levano alte note d’ottone, fino ai soffitti, ai tetti, a Venere. E poco dopo, la bottiglia spremuta, copressa nel sacchetto, si ricompone con un rumore secco, tenta per l’ultima volta di tornare tromba.

La poesia nasce da lì, l’ispirazione si fa deglutizione, arriva al ventre, gassosa lo gonfia, viene filtrata, fuoriesce per l’uretra. È l’urina, ciò che brucia, ardente, come il fuoco dell’ispirazione, che è rossa come il sangue. Una questione di organi e scheletro, ossia di contenuto e forma; insomma, una fisiologia, se non anatomia, poetica: «Dal teschio della noce / si estrae come un dente / il linguaggio / si getta in verso cavo / incrinato lungo il raggio / Niente anestesia ma soffi di sangue / Vaso sanguigno invaso / depredato svuotato / svasato / Inverso fiottare invasato / verso una deportazione / dalla natura alla pastura / dal gheriglio della voce» (Dalla natura alla pastura, p. 27).

Pacini sembra dirci che non fa della poesia il suo nutrimento, ma che è lui a nutrirla, accudendola, vivente. Si tratta di una dichiarazione esplicita in nota; l’immagine usata è tanto quella naif del baby-sitter quanto quella deteriore del badante della poesia: «Nel primo caso, ho avuto modo di esibire una certa maldestria nel gestire un esserucolo non mio: nel levargli il pannolone, nell’addormentarlo, nel fare il pagliaccio. Nell’altro caso, non c’era che armarsi di autoironia e soprattutto di tovaglioli, per pulire le bave […]». (p. 103) Feuerbach ha dichiarato che l’uomo è quello che mangia. Anche nel caso della poesia, per Pacini, ma solo se la si sostituisce al soggetto, all’essere umano: «Ho salvato tra le ferraglie / del camion targato / 3-01-11 / una forma di pecorino ingiallito / ho fatto una confezione / ho fatto una preghiera /ho fatto schifo / ma ho raccolto le forze / e sono tornato ancora da te» (L’incidente, p. 40).


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Le librazioni sono lievi oscillazioni della luna che rivelano all’osservatore terrestre margini del suo lato oscuro. Stupidamente, nella mia testa, sono anche le azioni che i libri compiono su di noi, rivelandoci sempre qualcosa, se è vero che il verbo rivelare vale tanto svelare quanto velare nuovamente. Potete leggere le precedenti puntate di Librazioni sul blog Tono metallico standard: http://tono-metallico-standard.blogspot.it/

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IMG_0130_1*Diego Bertelli insegna lingue e letteratura italiana presso l’International Studies Institute at Palazzo Rucellai, Firenze. Suoi saggi e traduzioni sono apparsi su riviste italiane e internazionali. Collabora attualmente con «Minimaetmoralia», la sezione secondo Novecento della «Rassegna della letteratura italiana», l’«Indice dei libri del mese» ed è il curatore del sito ufficiale di Bartolo Cattafi (www.bartolocattafi.it). Nel 2005 ha pubblicato la raccolta di poesie L’imbuto di chiocciola (Firenze, Edizioni della Meridiana). Nel 2011 è stato finalista al Premio Alinari con la raccolta inedita Lo stato delle cose in sospeso, di cui uscirà una selezione sul prossimo numero di Italian Poetry Review, 6, 2011. Un suo racconto, Il sogno di Amanda, è apparso in Toscani Maledetti, a cura di Raoul Bruni (Prato, Edizioni Piano B, 2013).

3 thoughts on “Librazione di settembre: Bernardo Pacini

  1. Queste di Pacini sono cose già lette, in qualche maniera, in Cescon, Fantuzzi, etc., tutti maestri del non dire assolutamente nulla con un gran numero di parole, estenuanti, boriosi, pieni di sé; gente a cui fanno difetto tecnica, tensione alla bellezza e una qualsivoglia coscienza critica. se possedessero quest’ultima, io credo che eviterebbero di scrivere

  2. Invece a me piacciono questi versi perché hanno il coraggio della poesia bassa. Chi è “borioso, estenuante, pieno di sé” non scriverebbe di essere un badante della poesia, né menzionerebbe “schifo” o “google”. Ci vuole una combinazione di fiducia in sé stessi e di umiltà per non tradire poesia con queste cose dentro. Inoltre è innegabile che ci sia un METRO in queste poesie, ed è un metro personale che più dei contenuti porta la voce. Sono questi versi brevi icastici come un vaticinio andato a male eppure ancora vivo, utile direi. Quindi questo scrivere non solo lo io lo assolvo ma lo giustifico. Se non altro, qui si dice la voce di Pacini. E siccome una voce non è poco averla, dobbiamo esultare nell’aver trovato un poeta. Previsione: Pacini va nella direzione della paternità (tutto questo “occuparsi” della poesia non può che diventare più oneroso con successo del primo libro): la sfida per Pacini rimarrà quella di non strangolare la sua poesia, proprio come rimane difficile non tarpare le ali ai figli, perché la poesia come i figli viene dallo spazio, è nostra ma la guardiamo e pensiamo ma da dove viene? Non ci pare di esserne autori. Insomma la poesia di Pacini chissà quale direzione prenderà e saprà il poeta rimanerle fedele? Lasciarle la sua libertà? Più si invecchia più la scrittura si ribella. Teniamo le dita incrociate e intanto un plauso per questi testi così originali e immacolati nella loro colloquiale bellezza. E grazie anche a Bertelli per lo spazio e l’intelligenza.

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