Narrativa italiana/Recensioni

Il sofà sui binari di Caterina Davinio

 Davinio, romanzodi Ivano Mugnaini

Caterina Davinio, Il sofà sui binari,  puntoacapo editrice, 2013 

Il rapporto dell’uomo con la follia, con la propria follia, è uno dei cardini essenziali di questo romanzo. Il tema è stato trattato infinite volte e con le più svariate forme e modulazioni nella storia dell’arte e della letteratura. Riuscire a farlo in modo originale, con un’impronta autonoma, fresca, autentica, richiedeva una mano ferma e ispirata e un approccio allo stesso tempo rigoroso e disincantato. Caterina Davinio è riuscita in questo suo romanzo a mettere insieme tutti questi elementi. Ne deriva una storia adeguatamente poliforme, riccamente policroma. L’esplorazione di territori ai limiti del grottesco espone sempre l’autore al rischio del “bathos”, l’abisso risucchiante della comicità involontaria. La Davinio ha saputo danzare sul crinale senza mai cadere nel baratro. Ciò in virtù di una narrazione sempre attenta, accuratamente misurata, anche nei brani in cui la vicenda si inoltra nei territori della più estrema invenzione fantastica e nei passaggi in cui i dialoghi si addentrano negli ambiti di una naturalezza immediata e colorita. Il sorprendente è tenuto a freno, sorretto e corretto da descrizione precise, verosimili. Il “volgare” è compensato da una lingua di andamento cadenzato, quasi classico, e da molti riferimenti colti inseriti nel tessuto del romanzo mai come mero sfoggio estetizzante ma piuttosto come parte integrante della vicenda.

Uno dei punti di forza del romanzo è l’equilibrio tra naturalezza e costruzione, tra spontaneità e pianificazione della trama. Di primo acchito si percepisce la storia narrata quasi come un fluire incontrollato, un monologo che sgorga e fluisce vigoroso come un fiume in piena trascinando con sé detriti di memoria e divagazioni di diversa natura. In realtà procedendo nella lettura ci si rende conto che ogni brano trova un giusto contrappeso, e un contrappasso, ironico o sarcastico, in un brano precedente o successivo. L’effluvio apparentemente incontrollato in realtà è regolato da un intreccio preciso, quasi da romanzo giallo o da racconto d’avventura racchiuso all’interno di una disanima filosofica che costantemente nega se stessa, si riconferma e si nega ancora, trasformandosi, mimetizzandosi per rivelarsi al momento giusto con più vigore. L’incontro con la follia individuale, quella con cui ogni essere umano deve fare i conti e venire a patti, è messo in evidenza passo dopo passo. I due personaggi principali della parte iniziale del testo sono emblematici: un manager, simbolo malgrado tutto e malgrado se stesso di una modernità che pretende di essere logica, finalizzata al massimo profitto, all’ottimizzazione del tempo. Senza rinunciare neppure alla pretesa di possedere, all’interno della propria valigetta di pelle, anche la chiave della felicità. Dal canto opposto, lanciato al suo fianco sul suo stesso treno, nella sua stessa dimensione, un alieno. Affiancato alla supposta concretezza troviamo l’essere ipotetico per antonomasia, estraneo per definizione, abitante di territori al di là delle galassie della comprensione “normale”.

Il rapporto tra questi due esseri contrapposti è necessariamente conflittuale e la Davinio lo illustra con una gamma di toni e registri, tra il drammatico e il comico. Il riferimento più immediato è Pirandello, il sentimento del contrario emerge dai gesti e dalle parole. Ma compare anche lo spettro dell’assurdo, evocato anche direttamente, come un fantasma in carne ed ossa, quando si fa riferimento esplicito a Godot e alla sua infinita e vana attesa. I richiami intertestuali in questo romanzo sono numerosi, come si è detto, ma è giusto confermare anche il modo del tutto originale con cui l’autrice li evoca e li trasforma dando loro vita autonoma. La letteratura, ma anche l’arte, l’esempio più eclatante e fascinoso è la leggiadra Flora di Botticelli, vengono metabolizzati fino a diventare carne viva della narrazione, quasi personaggi ulteriori, voci e presenze tangibili all’interno della trama. I differenti toni e i registri, utilizzati al momento giusto, non stridono tra di loro, anzi, creano un effetto allo stesso tempo straniante e realistico, permettendo l’inserimento di riflessioni sul senso del vivere, del pensare, perfino dell’aspirare alla ragione e alla felicità. Far convivere l’avventura grottesca di una storia basata sul mistero con i richiami di un moderno e bizzarro Inferno visto con gli occhi dei personaggi di Alice in Wonderland è l’impresa in cui la Davinio si è gettata. Con un risultato soddisfacente. Sì perché tra un’esclamazione in apparenza lieve ed un flashback spiazzante si coglie ciò che va al di là dell’immediatezza, si riesce a dare una sbirciata al di là dello specchio, Through the looking-glass. In un bagliore, un riflesso caleidoscopico si ha l’impressione che, forse (e questo forse è più che mai essenziale) l’inappuntabile manager e lo strampalato alieno in realtà siano la stessa persona. La stessa cosa. Quel qualcosa di indefinito che si colloca tra pazzia e ragione. Quel qualcosa che viaggia a fianco a se stesso, e a noi stessi, con una valigetta chiusa e misteriosa. Si ha l’impressione, o la certezza, che il treno su cui viaggiamo, quello che ci è toccato in sorte, viaggi sempre e solo sul binario diretto verso una pazza felicità. La sola felicità possibile. Quella che viene a patti con l’alieno e finisce per capirne gesti e parole.  Quella che riconosce, accogliendo come plausibili le considerazioni dell’alieno, che “forse siamo in balia di un pazzo, di un macchinista pazzo, io e te, manager. Chi è che guida questo treno? Forse loro lo sanno, perché, stando fuori, ritengo che si considerino le cose con maggiore lucidità. Si abbraccia il panorama generale.”

La pazzia di cui narra la Davinio è creativa, fertile, sospesa tra le citazioni poste in esergo al testo, quella di Carlos Ruiz Zàfon e quella di Jimi Hendrix. Tra il dubbio riguardante la consapevolezza della follia e la certezza che la pazzia sia paradiso alla portata dell’uomo, dell’uomo realmente ed autenticamente libero. Il viaggio accanto all’alieno può diventare, nonostante tutto, una musica, un ritmo. Se si prende atto di non essere soli, di ospitare dentro di noi l’opposto di noi stessi, e un’entità affine. Se pirandellianamente si accetta che un pubblico estraneo ci vede, e se accettiamo che di tale pubblico ci importa moltissimo e non ci importa niente, allo stesso tempo. Se accogliamo l’idea di trovarci su un treno partito da chissà dove e diretto verso Nessunluogo, la città inesistente evocata più volte. La realtà consiste proprio nell’accettazione della pazzia, sembra dirci il romanzo. Non a caso forse la sola frase scritta con caratteri maiuscoli, quasi un grido, è quella con cui il manager si rivolge all’alieno, a quello che lui chiama il mostriciattolo, rivelandogli che l’eccessiva regolarità del paesaggio che stanno attraversando non lo convince, non è tangibile, a suo avviso. La vita, dunque, è irregolarità, volontà, necessità di sfuggire agli schemi.

Il romanzo è ricco di spunti e di colpi di scena. Il tutto oscilla tra dimensione autentica e riflesso immaginario, puramente ipotetico. La stessa esistenza, perfino della voce narrante, viene messa in dubbio, dibattuta, resa oggetto di contrasto: “Vuol dire… che, secondo Lei, non sarei vivo, io, adesso? Che sarei già morto, anche ora, mentre Le parlo? –  chiedo sgranando gli occhi, spaventato e divertito dall’assurda ipotesi – Pensa che sarei un maledetto fantasma, e questa fottuta città persa nella nebbia di chissàdove… sarebbe così un avamposto dell’aldilà?”. Anche l’amore, il mistero dei misteri, si inserisce adeguatamente in questo ambito, e contribuisce ad arricchire la trama con una coloritura ulteriore, sempre ben controllata, descritta ad occhi bene aperti, senza rinunciare al fascino dell’ignoto, l’attraversamento dei domini del sentire, la più fertile delle follie. Amore e ricerca, o deliberato smarrimento dell’identità si fondono, si sovrappongono: “Non sono nessuno, ormai; ebbene? Chi più felice di me? Io l’amo… Se ricordassi chi sono, forse l’amerei di meno, avrei qualcosa o qualcuno da rincorrere, da riconoscere e da disconoscere, e che ci terrebbe lontani, ma, invece, per fortuna…”.

I titoli con cui sono descritti i vari capitoli sono di per sé ritratti, quadri astratti e concreti, ricchi di oggetti e di simboli, di sfondi nitidi e di sfumati chiaroscuri. “Penose avvisaglie di realtà”, oppure “Colluttazione per una valigia”: sembrano didascalie del cinema degli esordi, quello del muto, quello in cui era più evidente, e più magicamente evocativo, il contrasto tra fantasia e realtà. Eppure, era proprio allora che poteva accadere che gli spettatori fuggissero atterriti dalla sala quando la cinepresa riprendeva frontalmente un treno che sembrava investire coloro che erano seduti in platea. La Davinio ha saputo prendere in mano allo stesso modo, con la stessa immaginifica forza, la propria cinepresa narrativa, in questo romanzo. Siamo rassicurati dall’irrealtà, dalla figura grottesca dell’alieno, dalle situazioni improbabili, immerse nella penombra della letteratura e dell’arte del passato. Ma, anche noi, abbiamo un sussulto e tentiamo una fuga, quando ci accorgiamo che quello stesso treno è lanciato a tutta velocità verso noi, anzi, è già dentro di noi. A tratti emerge anche la poesia, nel nome di uno dei protagonisti ad esempio, battezzato “Orizzonte”. Ma è sempre poesia che riflette, mai meramente oleografica. Tutto si riflette sempre nello specchio che racchiude il mistero di fondo, quello che ragiona sulla direzione del viaggio, quel Nessundove, quel Nowhere che, come in un romanzo di Samuel Butler tra fantascienza e dimensione satirico-filosofica, si può leggere anche a ritroso, a rovescio, conducendoci verso un Erewhon che è un modo di perdersi, per ritrovarsi, o perdersi definitivamente. In quest’ottica, probabilmente, è essenziale il coraggio di dare dimensione a quell’alieno, il mostriciattolo che all’inizio non dovrebbe neppure esistere e che nella parte conclusiva del romanzo è scritto addirittura col la lettera maiuscola.

Adeguatamente, con coerenza, la Davinio non impone un punto di vista assoluto, non dipinge con un tratto univoco gli edifici della città immaginaria che il treno ha raggiunto. Ci indica che le vere risposte sono individuali, legate a tragitti, traiettorie autonome: “Ma io non vedo, non vedo nulla; ho solo un gran dolore alla testa. Chissà qual è la verità, mi lamento; non riesco ad aprire gli occhi, sono sconvolto da quello che mi capita, e perdendo i sensi penso tra me… che io, comunque, non saprò mai qual è la fine della storia, cosa ho sognato e cosa fino in fondo era vero”. Niente, a ben vedere, appare casuale in questo romanzo. Anche le scelte che potrebbero sembrare del tutto irrilevanti a puramente accidentali finiscono per assumere un rilievo simbolico e metaforico. Il tutto però con una lievità salda, per così dire. Senza imporre verità assolute, anzi, ragionando assieme al lettore, trascinato in un gioco serissimo, sulla natura sfuggente e contraddittoria di ogni certezza, di ogni presunta verità. La sola certezza assoluta, paradossale per eccellenza, e quindi dominante, inesorabilmente padrona, è la follia. Uno degli scopi che sembra trasparire dalla narrazione della Davinio è quello che mira a mostrare che la sola follia colpevole è quella di chi si ostina a negarne l’esistenza. Alla fine di tutto subentra e prevale il coraggio di affrontare anche l’alieno più feroce e spietato, la ragione: “la tua morte è la mia, il sonno della ragione genera mostri, e la mia vita senza principio e senza fine era bellissima come il tuo fantasma leggiadro che scivolava sull’erba nella nebbia, ma io non lo sapevo”. Letteratura ed arte, citazioni di parole e immagini, ricordi ed incubi, in un mélange che costituisce la trave portante di una trama complessa, variegata e accattivante.

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