Ogni poeta ambisce a una sua pur provvisoria genealogia. Mauro Sambi consapevolmente invoca Montale (quello dei Mottetti?), ma potrebbe anche fare sottovoce i nomi di Auden e di Shakespeare e Donne (ottimamente tradotti, e la traduzione fa parte integrante del suo corpus poetico) e Zanzotto, da cui forse ha appreso l’arte e il piacere di adottare la forma del sonetto per riorientarla quasi completamente, ma in fondo, a differenza di Zanzotto, credendoci ancora, fino al calco virtuosistico (Tornami a vagheggiar: oh mai vagasti; I suoi capelli abitati dal vento). Nel bel saggio che precede la raccolta complessiva dei suoi versi, L’alloro di Pound, Gabriella Musetti scrive: “A volte il fraseggio si fa piano e quasi colloquiale, a volte la lingua si inarca in un andamento più solenne, come ripercorrendo le immagini del mito, di un mistero pagano”. Parole che si applicano facilmente a tutta la produzione di Sambi, che ama mischiare i registri non meno dei temi (anche se prevale quello d’amore, non in chiave intimista però), con una particolare attenzione ai rimandi interni, che non sono solo di tipo metrico (l’amato endecasillabo, ma anche il settenario, o la rinuncia esplicita a uno schema metrico fisso) o prosodico (rime, rime interne, allitterazioni, assonanze), e penso alle citazioni occulte, ai passaggi da una letteratura all’altra, di cui le traduzioni sono solo la spia, il segno di una complessa e profonda tessitura culturale. Non per questo la sua poesia (Sambi appartiene certo ai “poeti laureati”, come del resto anche l’artefice di questo emistichio e infelice slogan di un secolo) è contratta in uno sperimentalismo linguistico che ripudia gli amanti di quello che Ungaretti chiamava “il canto italiano”, anzi sembra sollecitarli, invitarli a ripercorrere sentieri che nel frastorno di tempi sembrano dimenticati, come il recupero di un passato o di una terra che per lui, come per noi, sa di remoto e di radici ancora operanti. Sambi è un poeta molto attento a calibrare il tono di ciò che dice, a correggerlo nel momento stesso in cui si accorge di avventurarsi a una quota pericolosa, sbilanciandosi verso l’alto o verso il basso, sia nel rammemorare struggente che sfiorarando il patetico, e si legga in questo senso il frequente ricorso all’avverbio modale, che interviene al fine di puntualizzare, certo, ma anche come ricorso a un’andatura prosastica, come se cercasse un terreno più solido (senza rinunciare al funambolismo linguistico non privo di sottintesi, arrivando a spezzare l’avverbio in enjambement: “…senza metro/di paragone coll’intorno, altera/ di un’alterigia difensiva e fiera-/mente incerta”). A disagio nel presente, il poeta (frequentatore delle “zone attigue al disastro”) si aggira volentieri nel passato o in un futuro anticipato e osservato quasi con il distacco di chi volesse rifugiarvisi come in un porto sicuro, e una parte di questa inquietudine è certamente data dal nesso corpo/anima, che in lui si traduce in una fisicità della parola, delle situazioni, delle sfumature dei sentimenti, come nella delicatissima Stratford-upon-Avon, III, dove il ricordo di Shakespeare e della sua ambiguità sessuale, si mescola all’insofferenza per le facili attenzioni puritane e psicologistiche, spostando la riflessione sul legame Montaigne-La Boétie, e concludendo in modo alto: “L’assenza spinge a dire al confine/del corpo l’ansia per l’anima affine”. Non un modo per sublimare, ma una forma di comprensione purificata, librata nel regno metafisico del pensiero e della poesia che, in un poeta come lui, sa assecondare la realtà senza concederle troppo.
ANTOLOGIA
da: Diario d’inverno, 2008 (pubblicato in proprio)
Warwickshire, Oxfordshire
L’autobus scivola nella campagna
stillante un pulviscolo d’acquerugiola
così sottile che quasi non bagna
i vetri; ogni sguardo grato è un indugio
tra le glorie del verde. Qui ti chiamo
al tuo futuro e presagisco che ogni
refolo può staccarti dal ramo
condiviso; il tuo irrequieto bisogno
di cose concrete non consola
la mia inquietudine crescente; pesi
gli accenti per eludere la sola
risposta che vorrei. Tra pochi mesi
la tua scelta scoppierà (e sarà vano
il presagio) come una bomba a mano.
Oxford, II
University College. La tua icona
luminosa (gli occhi chiari intonati
alla camicia celeste) depone
sui rilievi dolcemente inarcati
dell’ingresso una traccia inconfondibile:
schiudi le labbra in un mezzo sorriso
cauto, ironico, come l’inudibile
pensiero che balugina sul viso
offerto al ritrattista improvvisato.
La tua cifra sembra essere il distacco
unito a un che di affabile, il pacato
colloquio che non paventa lo scacco
dell’emozione, non apertamente.
Ma dentro agli occhi l’enigma è evidente.
Oxford, III
I grifoni tra le guglie e le creste
di St Mary; le maschere mutevoli
nei fregi di Magdalen; la foresta
sul portale di Merton, col benevolo
unicorno accostato al maggiorente
genuflesso – scolpiti nella pietra,
immobili, raccontano un pungente
paradosso alla ragione che arretra
confusa: la metamorfosi colta
nell’atto del suo farsi e congelata
per sempre nel sasso, la vita tolta
alla vita a salvarne la durata…
Sarà così di te in questa scrittura
chiusa, di te che spezzi ogni armatura?
da: Scene di contorno a una lamentazione, 2008-2011 (inedito)
Il presente
Curiosamente da un po’ di tempo
se faccio cose che ti riguardano
la temperatura all’improvviso
si abbassa: nevica o talvolta gela.
Anche oggi, portando a rilegare
i vecchi versi di un commiato protratto
e irreversibile, il cielo da più giorni
livido ha ceduto di colpo sfarinando.
Penso che poveramente posso averti
accanto, facendo cose per te,
intorno a te, giocando di memoria
o d’anticipo, mancando quasi sempre
il presente. Così il Tempo si oppone
perfino a questo niente – arma trappole
di gelo, tende agguati di gelo al piede
perché scivoli, al cuore perché perda
prima della meta anche la direzione.
Calicanto
Quando si giunge al culmine del gelo
lise ormai o cancellate le tinte
che fanno dell’autunno la stagione
migliore, mite e sontuosa nel declino
e prima, molto prima che le prime
gemme suggeriscano il putiferio irresistibile
il dolore
della primavera, e solo il calicanto
sollecita intenso immateriale
nel fioco del colore, nel fondo del profumo
l’altro aprirsi tra brina e neve, tra notte e
buio, allora quel fiore è come
qualche tua riga qualche tua
parola di quando in quando.
Erma di Giano
Nella ridda di doppi che colluttano
mortalmente in me, nella collisione
dolente di codici che è la brutta
stella delle mie insonnie di passione
c’è, alla radice, la vita già tutta
lasciata alle spalle, ogni decisione
sciupata, ogni via d’uscita distrutta
e, aggirandomi spettralmente in zone
attigue al disastro, l’irresistibile
richiamo del futuro, la dolce esca
sull’amo della speranza, la luce
ambigua e setosa, suddivisibile
all’infinito, dell’amore, fresca
ferita e balsamo, Creazione in nuce…
*
Come la rondine in volo sulla piscina
fra l’Ossero e il mare in un brivido di bora
calibra al millimetro la parabola
che l’avvicina all’acqua necessaria
ma fatale a una specie terrestre incapace
per suo destino evolutivo di nuotare
così al tuo azzurro mi abbevero io: lambendoti
specchiandomi per attimi puntuali e via
in alto per timore di annegare
nel profondo – un sorso solo deve bastare.
Requiem per due pini
il progressivo annientamento e scempio
della vita secondo natura
Sebald, Gli emigrati
a M. B.
Per i due pini prossimi alla posta
prodighi di profumo e ombra – un presagio
di mare tra asfalto e marmo, una sosta
di pace per lo sguardo nel contagio
ubiquitario del cemento – non
c’è stato scampo: sono stati fatti
a pezzi, sentinelle di anni, con
seghe e asce, in pochi istanti, disfatti
“perché sporcano”. Sporcano anche i nidi
benedetti di becchi protesi, i
figli piccoli che crescono: il “sì” di
ogni vita è disordine – così
vuole la vita. E noi? Siamo convinti
di un ordine di tombe e fiori finti?
Da: L’alloro di Pound, Altre lettere italiane, 2009.
La finestra
La norma è il buio, ma – che questo accada:
nell’umida compattezza del muro,
una finestra dalla grata rada
e obliqua, una disfatta dell’oscuro,
– ed oltre il varco un vigore di pura
luce – luce inattesa sulle giade
del giardino, sulla docile cura
dell’ape messa alla dalia, su strade
di polline e profumo – è questo il dono,
il miracolo minimo, precario.
Luce che levi nel balzo il gemmato
unicorno, e sul torbido acquario
di carpe accendi ninfee, fendi il lato
dell’ombra, non concederle perdono.
Il gatto
Il gatto mollemente sdraiato
sul prato ben rasato dei vicini a primavera
non ha preoccupazioni di cuore o di carriera,
resta immobile ad attendere la sera
– trascurando l’agguato, approntato
per contegno, così, di tanto in tanto,
–vibrando una rapida zampata–
al volo zigzagante di qualche divagante farfalla.
L’invidia mattutina del suo stato
gonfia nella corsa a perdifiato
verso la stazione –oh, l’imperdibile
diretto delle otto e ventiquattro…
Dorme conforme la sua legge, dorme o scatta;
non deve farsene – gatto – una ragione,
non misura il perimetro della sua prigione.
L’appena intuita illusione
Settembre in città annida come sempre
tenaci nostalgie: quando un profondo
azzurro arioso affina la memoria,
e morde il desiderio di un gabbiano
librato sulle vie, o affiora uno scoglio
(un tuffo, l’ultimo) – e poi si china
il capo al rombo grave dei motori.
Spiando con qualche apprensione il tramonto,
ci si arrende alla prosa impercettibile
del maglione da mettere la sera,
duole l’appena intuita illusione
di libertà.
Adesso è tempo di scelte difficili.
E sgomenta scoprire che talvolta
è vano avere nelle vene il mare
quando la vita presenta un reclamo.
Anniversario
A Sounio di lucente primavera
Colonne piene di cielo, la brezza
Densa d’erbe in alto sulla scogliera,
Altri ori che la memoria accarezza:
Tutto a segnare un principio. Sarà
Poi favola ai figli, l’album sfogliato
Pensosamente a carpire l’età
Ch’è fonte e destino, lo smisurato
Mistero dell’origine. Mia cara,
Nel passato che sa farsi speranza
È un segno: che la vita non è avara,
Che c’è uno spazio aperto all’esultanza.
Fu un tranquillo ritorno tra gli ulivi,
Con quell’idea di noi – uniti e vivi.
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*Mauro Sambi nasce a Pola (Croazia) nel 1968, dove frequenta le scuole italiane locali fino alla maturità scientifica. Nel 1987 si trasferisce a Padova per conseguire la laurea (1993) e il dottorato (1997) in chimica. È professore straordinario di chimica generale e inorganica dell’Ateneo patavino. Vive con la moglie Maria Luisa e i figli Elia e Giulio in provincia di Padova. In ambito letterario, nel 1985 gli viene attribuito il terzo premio nella sezione giovani del Premio “Comisso” di Treviso (da una giuria presieduta da Andrea Zanzotto). Nel 1998 vince il primo premio ex aequo al Concorso nazionale biennale di poesia “Città di San Vito al Tagliamento” (in giuria: Andrea Zanzotto, Nico Naldini, Silvio Ramat, Amedeo Giacomini, Elvio Guagnini) con la silloge “Di molte quinte vuote”, pubblicata nell’Antologia dei vincitori (L. M. Bortolani – A. Garlini – M. Sambi, Di molte il limite l’umiltade, Campanotto, Pasian di Prato, 1998). Sue poesie sono state pubblicate sulla rivista culturale «La Battana» (Fiume), sul mensile torinese «Il foglio» e in alcune antologie edite in Italia e in Croazia. All’inizio del 2010 è uscito il suo primo volume monografico, “L’alloro di Pound – Poesie 1994-2009” (EDIT, Fiume, con prefazione di Gabriella Musetti), finalista alla III edizione del Premio Nazionale “Lamerica”, accanto a Maria Luisa Spaziani e Gabriella Tonon. Nel dicembre 2011 si è classificato al II posto alla 51esima edizione del Premio “Leone di Muggia” con la silloge inedita “Scene di contorno a una lamentazione”. Collabora al blog letterario Cartesensibili dove cura la rubrica “Voci Oltrenordest”, una serie di profili di poeti della Comunità Nazionale Italiana dell’Istria e del Quarnero.