Interviste

I figli della globalizzazione

di Enrico Minardi

Patric Jean è un documentarista di origine belga noto, soprattutto nel mondo francofono, per opere che mostrano, senza compromessi e con grande coraggio ed intelligenza, le trasformazioni sociali indotte, nei ceti più deboli, da quel complesso fenomeno noto sotto il nome di globalizzazione. Ad un primo mediometraggio consacrato alla propria terra, il Borinage (Les enfants du Borinage, à Henri Stork, 1999), per mostrare le conseguenze su larghe fasce della popolazione della deindustrializzazione del territorio (anche la famiglia di Jean è, fra l’alro, di estrazione operaia), è seguito un lungometraggio, La raison du plus fort (2003), dedicato ad un’indagine di carattere sociologico sull’universo carcerario come strumento di controllo sociale.

In seguito, con D’un mur à l’autre – de Berlin à Ceuta (2008), è stato il fenomeno dell’emigrazione dal Sud del mondo ad essere al centro del proprio interesse, mentre nell’ultimo, La domination masculine (2009), non solo Jean si è consacrato ad un tema – come quello del rapporto fra i sessi – connotato in senso forse più culturale che sociologico, ma ha anche raggiunto un più vasto pubblico, essendo la propria opera entrata nel circuito di distribuzione di UGC. Quello che colpisce di più nei suoi documentari, è la straordinaria capacità nell’essere dalla parte dei “dimenticati”, degli esclusi e degli emarginati, arrivando a dare loro la parola come forse nessun altro.  Non risulta improprio per questa ragione accostarlo a Pier Paolo Pasolini, in quanto, come il grande intellettuale italiano, anch’egli fa dello schierarsi a fianco delle vittime la propria parola d’ordine con un rigore ed un’intransigenza davvero ammirevoli. Ma nonostante la propria aperta militanza, come anche in Pasolini, ciò che sempre emerge è una grande pietà ed umana simpatia nei confronti dei diseredati, fatti oggetto del proprio lavoro. È come insomma se la denuncia ed il J’accuse, di cui i propri documentari sembrano in ultima analisi ridursi, siano l’estrema e necessaria espressione di un sentimento di profonda e insopprimibile solidarietà, che l’autore avverte nei loro confronti. Lo incontriamo nella casa di Belleville, a Parigi, dove ora vive, per una conversazione che durerà più di due ore.

E.M.: Quello che colpisce nei suoi documentari è la maniera in cui lei riesce ad entrare in contatto con coloro che intervista, in specie quando si tratta di persone in condizioni sociali difficili, il cui livello di educazione è molto basso. La maniera in cui lei riesce ad accostarle ed a farle esprimere è veramente sorprendente. Anche perché l’impressione è che lei riesca a convincerle ad aprirsi senza sforzo, e che loro riescano così ad aprirsi perché, dall’altra parte del microfono, c’è lei. Potrebbe parlarci del metodo, o della maniera in cui riesce ad aggiungere questo obiettivo?

P.J.: Quel che è complicato quando si fa un film è il fatto che da una parte c’è la testimonianza di un soggetto e dall’altra la sua immagine. E il vero problema è quello dell’immagine. Nella nostra società i poveri cercano di nascondere la propria situazione perché se ne vergognano. E allora non ne vogliono parlare, la negano, mentono: “No, no, va tutto bene” e il giorno dopo l’ufficiale giudiziario gli porta via i mobili. Si lavora quindi con una minoranza che accetta di parlare: a volte basta un minuto per convincerli, altre volte ci vuole tempo. E si tratta di un lavoro di preparazione, di relazione e di fiducia; non s’improvvisa. Per esempio nel mio documentario [Les enfants du Borinage], il protagonista è un ragazzo che gioca a carte. In primo luogo, abbiamo girato una decina di incontri, abbiamo discusso insieme, gli ho fatto delle domande, cercando di renderlo consapevole di certe cose, dal momento che, come ti ho detto, c’è questo problema di negazione del proprio stato di povertà. Il ragazzo si sentiva colpevole della propria situazione, diceva che aveva commesso degli errori, non aveva studiato. Era sua la colpa. Invece, ti rendevi conto che la sua situazione era la stessa di tutta la famiglia da cinque generazioni. Per me è stato come un lavoro di maieutica: porgli delle domande in modo che si rendesse conto di certe problematiche. Ha riflettuto, mi ha dato ragione. Per me questa relazione di fiducia non è difficile da instaurare, perché vengo da un quartiere popolare. Anche oggi, che vivo in mezzo alla borghesia, continuo a sentirmi a mio agio. Quando ho girato La raison du plus fort, nei quartieri caldi, a rischio, non avevo paura, perché conoscevo i “codici”, anche se poi cambiano da una generazione all’altra, ma non mi nascondevo, né avevo bisogno di negare che mi trovavo in una situazione sociale diversa e più ricca. Un’altra cosa molto importante per me è il montaggio. Queste persone che filmo hanno molto spesso un grosso problema ad esprimersi. Per queste persone è complicato perché sono intimidite, non hanno l’abitudine di parlare, né di essere ascoltate, né tanto meno di parlare di fronte a una telecamera. In fase di montaggio posso pulire e ricostruire il loro discorso. Siccome li conosco, so esattamente quello che vogliono dire, per me diventa allora una questione di educazione cercare di pulire, togliere tutte le “scorie”, gli errori, le esitazioni che li fanno sembrare degli imbecilli, mentre quello che pensano e vogliono dire è chiarissimo. Il montaggio li aiuta ad esprimere il loro pensiero. È una forma d’educazione che permette ricostruire il discorso in modo che sia comprensibile.

E.M.: Mi è sembrato che la sua maniera di approcciare gli altri, l’autre, sia veramente “pasoliniana”, nel senso di un rispetto profondo per il suo punto di vista, per arrivare a capire davvero come l’altro “vede” il mondo.

P.J.: La mia volontà, il mio punto di vista, nei miei documentari, è di guardare il mondo con i loro occhi, di guardare la società dal basso. Oggi, se siamo in una situazione catastrofica è perché questo non si fa più, si guarda tutto da un punto di vista superiore: sono i deputati, i senatori, i giornalisti televisivi che danno il loro punto di vista, che guardano il mondo come si guardano gli insetti in una bottiglia. Ma se si va dagli insetti con una telecamera e si filma da laggiù, il punto di vista cambia. Ed è questo che mi interessa fare, essere vicino a queste persone e cercare di capirle. Si può capire da un punto di vista intellettuale, da sociologo, anche se è complicato. Ma quando si è vissuto in quel tipo di società si comprende subito il linguaggio codificato, la posta in gioco, anche certe cose che possono sembrare strane o irrazionali, si capisce perché succedono. La costruzione intellettuale si fa dopo, per spiegare quello che si vede. La mia è una prossimità “del cuore”.

E.M.: Ci può parlare di come sono state fino ad allora accolte le sue opere? Anche a partire dalla constatazione che l’ultimo documentario, La domination masculine, ha goduto della distribuzione di una compagnia importante come UGC.

P.J.: In genere sono state accolte fino ad ora molto male. Distinguiamo però due cose. Ho avuto delle critiche eccellenti: “Telerama” [settimanale molto popolare di critica sui programmi televisivi ed i film usciti in sala] ha dedicato quattro pagine a un mio film. Ma ogni mio film ha provocato delle reazioni violente, piene d’odio. Per esempio, Les enfants du Borinage mi ha creato dei nemici, specialmente in Belgio. Ancora oggi delle persone nel partito socialista non mi vogliono stringere la mano per questo, a causa di quella sequenza in cui intervisto alcuni rappresentanti politici locali. A suo tempo una parte dei socialisti è venuta a dirmi che quello che avevo filmato era duro ma vero, che c’era un problema da risolvere. Invece, per un’altra parte dello stesso partito sono il nemico: vade retro satana. E in genere va così. Per esempio La domination masculine non è stato per niente sostenuto dalla critica. E molti giornalisti si sono incolleriti; forse perché il film tocca una corda sensibile, intima che coinvolge tutti noi, senza distinzione di genere, e la maggior parte dei giornalisti ideologicamente non si trova sulla stessa linea di pensiero. Dei giornalisti sono addirittura usciti furiosi durante la proiezione sbattendo la porta; altri sono venuti interessati dal soggetto e intenzionati a scriverci un dossier, e dopo aver visto il film gridavano “che orrore”. Perché il film ha un punto di vista troppo femminista. Un punto di vista insopportabile per molti uomini, ma anche per qualche donna. In quel caso le reazioni sono state violentissime: ho ricevuto migliaia d’insulti, delle minacce. Dovevo mostrare il film in Quebec e ho dovuto rinunciare al viaggio perché stava diventando pericoloso. Sarei dovuto andare a un festival scortato dalla polizia seguito dalle guardie del corpo, ma avevo troppa paura: c’erano state delle minacce esplicite su Internet con dei fucili puntati sulla mia testa. C’è sempre qualche esaltato pronto a fare una stupidaggine. Che andavo a farci? Stare chiuso in camera d’albergo, con due bodyguard fuori dalla porta? Insomma ho dovuto rinunciare.

E.M.: Altri registi belgi, come i fratelli Dardenne, sembrano avere avuto una certa influenza sul suo lavoro.

P.J.: Non c’è stata in realtà nessuna influenza. Hanno fatto La promesse [1996] nel momento in cui io giravo il mio [Les enfants du Borinage]. Sicuramente alla base c’è la stessa origine. È un modo di far cinema tipico di certe regioni: Francia del nord, con Bruno Dumont, il Belgio, ed il Galles, con Ken Loach. C’è un’affinità nel modo di girare in queste regioni, solo questo.

E.M.: Parliamo ora del documentario che l’ha fatta conoscere ad un pubblico più vasto, La raison du plus fort (2003), ove ciò che emerge è in particolare la facilità in cui, nelle nostre società du control, la povertà viene criminalizzata in quanto tale.

P.J.: Questo film è arrivato subito dopo Les enfants du Borinage, in un momento in cui non pensavo di fare altri documentari. Però sentii alla radio il ministro belga della giustizia che chiedeva un rapporto a una specialista olandese sui legami tra immigrazione e delinquenza: perché gli immigrati sono più delinquenti? Era un tipo di destra, se non addirittura di estrema destra. Così, dopo il lavoro sulla riproduzione della povertà, sul determinismo sociale, è necessario lavorare alla questione della criminalizzazione della povertà: perché e come si criminalizzano i poveri. È un soggetto molto vasto che si basa sulle idee di Bourdieu, Foucault e altri. Volevo fare un film a mosaico mostrando dei quartieri “predestinati”, mostrare come funzionano il tribunale e la prigione e alla fine come si organizza da un punto di vista urbanistico la società in modo che il sistema si ripeta. È passato inizialmente alla televisione e poi al cinema [2005] e anche in questo caso ho ci sono stati più di duecento dibattiti nel giro di pochi anni.  Quello che dava fastidio a molta gente, anche di sinistra, era la questione della responsabilità collettiva: all’inizio e alla fine si sente la mia voce off che si chiede ‘cosa stiamo facendo?’ Il sentimento che avevo dentro era un po’ come, nella serie televisiva americana Lost,la presenza di “the Others”, quelli che regnano sul mondo, che decidono, mentre noi restiamo qui, incapaci di far muovere le cose. C’era chi mi chiedeva di fare una lista di giudici che si comportano nei tribunali come io ho mostrato nel mio film. Ma non ci sono liste da fare: è il sistema che si perpetua perché noi tutti lo accettiamo. Non scendiamo in strada per cambiarlo, anche se abbiamo il diritto di protestare, manifestare, denunciare, fare film o scrivere libri, ma non lo facciamo, perché non riusciamo a organizzarci collettivamente. Le guardie nelle prigioni spesso vengono dalla stessa classe sociale dei delinquenti: nella prigione in cui filmavo c’era una vecchia guardia analfabeta! È sempre stato un brutto lavoro, mal pagato; inoltre in tutte le prigioni il detenuto prende in giro la guardia, le dice “hai avuto l’ergastolo”, cosa che lo fa arrabbiare tantissimo, perché il carcerato prima o poi uscirà, mentre la guardia no. È stato fra l’altro un film difficile da girare, cosi’ come Les enfants du Borinage. C’erano delle persone della troupe che si deprimevano per la violenza del tema. Cambiavo città, e quando partivo da una città all’altra, qualcuno dell’altra troupe mi chiamava per dirmi che si sentiva male talmente era brutta e violenta la realtà che affrontavamo! Quando siamo usciti dal tribunale ci siamo chiesti come fare per distruggere tutto ciò. Non c’era un’altra alternativa, se non quella di distruggere. Non si può migliorare questo sistema così brutale, è una macchina per distruggere gli uomini. Nei media, ci vendono la grande bugia della Giustizia, mentre la realtà è tutt’altra. Il documentario finisce con la prigione che è la realtà più brutale. Mi ha provocato un sentimento di rivolta che è passato nel film, trasformandolo in un film pieno di collera, al limite dell’autodistruzione: non ho provato nessun piacere nel realizzare questo film.

E.M.: Sembra invece che il documentario seguente, dedicato al tema dell’emigrazione (D’un mur à l’autre – de Berlin à Ceuta, 2008), si possa parlare di qualcosa di più leggero, con una capacità anche di prendere una certa distanza ironica – ed anche autoironica – rispetto all’argomento, eppur così drammatico.

P.J.: Sì, è vero. È un film più leggero: volevamo fare un viaggio che partisse dal muro di Berlino fino allo stretto di Gibilterra, l’ultima estremità dell’Europa in Marocco. E  il principio del film era di incontrare delle persone che ci dispiacesse poi dover lasciare. Tutte queste persone dovevano avere in comune il fatto di essere emigrati. Alcune persone erano emigrate sessant’anni fa, altre qualche mese prima, e venivano da tutto il mondo. Era un ritratto sfaccettato dell’emigrante, il solo comune denominatore era di creare un momento d’incontro umano forte e intimo. Là ci siamo divertiti, ci sono anche delle parti molto ironiche, accanto ad altre scene, come quella filmata nel campo rom, abbastanza dure.

E.M.: Nell’ultimo suo documentario, dedicato alla Domination masculine (2009), sembra che si allontani dai temi fino a qui trattati, di carattere più sociale, per aprirsi a qualcosa di più “culturale” ed interclassista, come i rapporti fra i sessi.

P.J.: No, i film che faccio parlano sempre di rapporti di dominazione. Oggi appartengo al mondo dei dominatori, anzi sono un “superdominatore”: sono maschio, bianco, appartengo a una classe sociale privilegiata in un paese molto ricco, non sono obeso né malato, sono eterosessuale. Ho quarant’anni! Quando si guarda la pubblicità quarant’anni è l’età perfetta per un uomo. Potrei andare avanti così: è una serie di cerchi concentrici in cui mi trovo al centro. Invece a me interessa comprendere tutto ciò, rimetterlo in questione, prendere un altro punto di vista per abolire questo rapporto di dominazione. Lo esploro da tutti i punti di vista: dalla criminalità, all’emigrazione, al rapporto uomo-donna.

E.M.: Ci può parlare dei suoi progetti attuali, su ciò su cui sta lavorando ora.

P.J.: Oggi lavoro su un progetto molto diverso, multimedia, una serie televisiva sulla questione dello scetticismo, cioè del voler verificare se quello che vediamo corrisponde veramente alla realtà delle cose. All’inizio pensavo di lavorare sul falso, un tema che mi interessa da tanto tempo. Poi sono arrivato allo scetticismo, con l’idea che per capire il mondo si deve ricostruirlo, non si può mostrarlo così com’è, secondo la generale opinione mutuata dall’illuminismo, e di origine cartesiana. La questione dello scetticismo si ritrova per esempio quando si analizza un telegiornale. Non ci dà delle notizie, ma offre uno spettacolo costruito a partire da alcuni elementi presi dal reale; ma, io mi chiedo allora: perché questi eventi e non altri, chi li ha scelti, con quale scopo? Questo vale per tutti i media: guarda la foto che mostra la statua di Saddam Hussein che cade, con il popolo attorno: tutti dimenticano che ci sono i soldati proprio là vicino. Gli schemi religiosi, politici, ideologici fanno sì che ascoltiamo solo una parte delle informazioni, quelle che rientrano nel nostro sistema di pensiero. Dopo tutto ci sono informazioni che vengono da altri sistemi che potrebbero entrare nel nostro, rimetterlo in questione e migliorarlo. In un certo senso, lo scetticismo è un tema ricorrente nei miei film. In genere esiste un pregiudizio ammesso tacitamente su un fenomeno: per esempio su chi è povero, sul perché, su come si diventa criminali e si va in carcere, ecc., cioè sul fatto che chi è in questa situazione è perché, in qualche modo, l’ha voluta, ne è responsabile. Guardando dietro questa facciata, la realtà è più complessa e diversa. Non si va in prigione, non si diventa poveri per le ragioni a cui di solito si crede. Si dice che si va in prigione perché si fa qualcosa di sbagliato, e non perché nella nostra società il sistema penale fa sì che, anche se tutte le classi sociali commettono dei delitti, solo i poveri vanno in prigione in modo che la classe più povera se ne stia tranquilla, non si ribelli, integri un sentimento irrazionale di paura. Il mio compito è allora di guardare a questa facciata con lo scetticismo necessario per metterla in questione e, insomma, distruggerla.

E.M.: Mi parlava prima anche di una fiction sulle prigioni su cui sta lavorando sempre nello stesso momento.

P.J.: La fiction sulle prigioni è un film per la televisione su cui sto lavorando. È simile a un documentario perché sto studiando la testimonianza di Philip Landenne, un cappellano di prigione belga, che ha scritto una specie di diario in cui esprime un punto di vista radicale sulle prigioni. Poteva andare ovunque, ma né da detenuto né come del personale. Il suo è il punto di vista del cittadino, dell’essere umano di fronte all’orrore in cui tenta di mettere un po’ di umanità. Cercheremo di restare aderenti ai fatti, anche se resta un’opera di finzione. Si svolge in tre parti. Nella prima mostriamo la vita quotidiana in una prigione nuova e moderna in cui la percentuale di suicidi è molto elevata; cerchiamo dunque di spiegare perché ci sono tutti questi suicidi. Nella seconda parte la tensione sale e scoppia uno sciopero. E quando c’è uno sciopero in prigione è terribile perché tutto si ferma: niente telefonate, niente doccia, niente visite, niente lavoro, niente di niente. E quelli che sono da soli impazziscono. Si parla tanto del sovraffollamento, ma non si parla mai di quelli che sono soli in cella di isolamento e perdono la testa. Soli 24 ore al giorno, magari senza radio né televisione. Nella terza parte, poco tempo dopo, in seguito allo sciopero e ad altri episodi, scoppia la rivolta. Nella fiction, la questione centrale è l’arbitrario: come funziona un sistema carcerale basato sull’arbitrio che non fa che distruggere le persone che ci vivono.

E.M.: Mi sembra che gli anni Settanta vessero marcato in tutta Europa una presa di coscienza collettiva molto importante sulle condizioni dei detenuti, a cui fosse seguito un generale miglioramento delle loro condizioni, basato su una revisione profonda del diritto penitenziario.

P.J.: È vero, fra gli anni Sessanta e Settanta, si è registrata un’epoca di grande progresso, in cui c’erano fra l’altro molte meno persone in prigione. Teoricamente esiste una curva parallela tra il tasso di criminalità e quello della popolazione carceraria. Ebbene questa corrispondenza non esiste: la logica che si trova dietro è invece un parallelo perfetto tra la crescita economica (comprendente il costo della vita, il salario medio e la percentuale di disoccupazione) e il tasso di incarcerazione, con l’eccezione dei periodi di guerra. In poche parole, la prigione è un regolatore per la povertà e la disoccupazione. Infatti questo si può vedere quando qualcuno rischia di essere condannato a una piccola pena: l’argomento principe della difesa è di dire che l’accusato ha un lavoro che rischierebbe di perdere. Le questioni del lavoro, della povertà e della prigione sono intimamente legate e lo sono sempre state sin dal Medio Evo. Per uscire di prigione in libertà condizionale la prima cosa è avere un lavoro. Le forze produttive non si mettono in prigione. Non è il discorso ufficiale, ma il sistema è proprio questo: la prigione non serve a lottare contro la delinquenza; se fosse così, allora funzionerebbe in modo diverso, aiuterebbe le persone a ricostruirsi e riabilitarsi, le obbligherebbe a studiare. Invece la prigione non costruisce, ma distrugge le persone. La prigione serve a far paura; si dice che funziona male, che si deve migliorare, ma io non sono d’accordo: la prigione funziona benissimo e svolge perfettamente il ruolo per cui è stata concepita. Non c’è niente da cambiare, si deve solo abolirla.

E.M.: A questo proposito, si rimane sorpresi dal livello di coscienza politica che dimostrano molti dei detenuti da lei intervistati in La raison du plus fort.

P.J.: Ci sono parecchi giovani che si rivoltano in prigione. Capiscono quello che succede intorno a loro e hanno una comprensione approfondita dei rapporti sociali ed economici. Essendo in prigione, hanno tempo per riflettere, guardano la televisione e poi non sono stupidi. Non siamo più in una società di analfabeti. La gente studia di più; anche se hanno un percorso caotico, possono formarsi. Loro capiscono che la televisione mente, perché, come e a servizio di chi mente. In prigione si incontrano tante persone che parlano bene, in modo intelligente e che capiscono la complessità del mondo.

E.M.: Sul sua website si legge anche che sta lavorando sul Web, per una fiction da proporre solo sul Web. Ce ne può parlare? Da che presupposto teorico prende piede questo lavoro?

P.J.: Mi interessa molto il web: è un cambio di civilizzazione, non soltanto una trasformazione culturale. Passiamo da una civilizzazione lineare a una non lineare. È un passaggio radicale. Tutto è stato finora lineare: Dio ha creato il mondo in sei giorni e si è riposato il settimo. Il racconto è sempre lo stesso. Il racconto orale, la letteratura, il cinema. Tutto è lineare: il contenuto, ma anche il medium per esprimerlo. Adesso il medium non è più lineare. Siamo come alle prese con il fuoco nella preistoria: che ci facciamo? Come usare questi mezzi? Il pensiero non lineare, i concetti non lineari arriveranno, sarà qualcosa elaborato dalle prossime generazioni, non da questa che è ancora troppo abituata al sistema lineare per potersene disfare. Sono convinto che anche le storie cambieranno, non si avrà lo stesso sguardo sul mondo se si esprimono le cose in modo non lineare; le conclusioni saranno diverse, saremo toccati da altre problematiche di cui nemmeno abbiamo idea oggi. E poi c’è la questione della finzione, del reale e del virtuale. Oggi consideriamo il reale come qualcosa di tangibile, che il nostro spirito può apprendere ed ordinare in maniera matematica, mentre il virtuale rimane una sorta di fantasma posticcio. In realtà, la nostra visione del mondo è una finzione, tutto è fittizio. Il reale esiste, ma per capirlo servono dei modelli complessi, mentre la comprensione e la percezione che ne abbiamo sono completamente fittizie, una costruzione del cervello, tanto che si può anche credere a cose inesistenti. Questa rivoluzione concettuale allora cambierà anche il nostro modo di vedere il mondo. Sarà un’altra organizzazione del pensiero che farà nascere altre forme di pensiero. In termini di scrittura ci sono delle cose interessanti in prospettiva. In questo senso è interessante un libro americano, House of Leaves [di Mark Z. Danielewski, 2000],  ma anche certi esperimenti fatti al cinema da David Linch. Siamo solo all’inizio.

[Quest’intervista ha avuto luogo nell’estate del 2010, e non dà di conseguenza nessuna testimonianza quanto alle ultime opere di Patric Jean. Ci riferiamo in particolare al cortometraggio di animazione Pixels (2010), che narra l’invasione di New York da parte di video games tradizionali, come pac man e space invaders. Vincitore del Festival Internazionale di film di animazione di Annecy (2011), i diritti sono stati acquistati da un grande studio di produzione holliwodiano per trarne lungometraggio. Ci si riferisce inoltre a Lazarus Mirages (2012), definito “esperienza transmediale – cioè trasmesso su diverse piattaforme mediatiche –  a proposito della ragione e del pensiero scettico”, a cui l’autore fa indirettamente allusione nell’intervista, e.m.].

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