di Francesco Bausi*
Nel 2012, cinquantesimo anniversario della prima pubblicazione del Giardino dei Finzi-Contini, sono apparse sia una nuova edizione completa del Romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani (a cura di Cristiano Spila, Feltrinelli), sia, presso Einaudi, l’edizione riccamente commentata da Alberto Cavaglion di Se questo è un uomo di Primo Levi (uscito nel 1947, e riproposto in edizione riveduta nel 1958): due libri che si annoverano tra le più alte riflessioni letterarie italiane sul tema della persecuzione ebraica e della Shoah. Eppure, benché la vulgata critica e giornalistica tenda spesso ad accostarli, è difficile, almeno sotto certi aspetti, immaginare due scrittori e due romanzi più diversi. Ad esempio, benché la cosa possa a prima vista sorprendere, Bassani non amava Primo Levi e non apprezzava particolarmente Se questo è un uomo, anzi ebbe a scriverne in termini decisamente riduttivi, arrivando quasi a negargli lo status di vero e proprio romanzo. In un suo saggio del 1971, riferendosi proprio a Se questo è un uomo, definì infatti Levi non un vero “poeta”, ma piuttosto, con formula vittoriniana, «un intellettuale che scrive», perché in quel romanzo – come nella Tregua – «tutto è documento, nobile presa di coscienza morale, ed efficace “oratoria del gusto”»; e in quello stesso saggio Bassani contrappose Se questo è un uomo al romanzo di argomento affine Il campo degli ufficiali di Giampiero Carocci, uscito nel 1954, ma anticipato fin dal 1949 sulla rivista «Botteghe Oscure».
Un libro dimenticato già allora e quasi irreperibile anche oggi (lo ha ristampato la Giunti nel 1995), un libro però che Bassani preferisce perché opera – sostiene – di uno scrittore «puro, poetico, disinteressato»: un «puro artista», il cui fine «non era tanto di offrire un resoconto della propria prigionia in Germania, quanto di riuscire a tradurre una lenta discesa verso il cuore del territorio nemico in termini di puro ritmo narrativo».
Il giudizio bassaniano, per non essere frainteso, esige di essere ricondotto alle ragioni storiche, autobiografiche e letterarie che lo dettarono. Per Bassani (che sotto questo aspetto ha sempre guardato da una parte a Croce, dall’altra alla grande tradizione del romanzo europeo otto-novecentesco, in primis a Flaubert e a Thomas Mann), essere letterato e poeta richiede l’assunzione di un punto di vista «esistenzialistico e metastorico» rispetto alla materia trattata: ciò comporta da un lato il superamento del “particolare” nell’ “universalmente umano”, dall’altro la costruzione di un’opera-microcosmo, un organismo formale, cioè, che vive di vita propria e obbedisce a leggi proprie, a principi essenzialmente poetici e architettonici. Il romanzo, insomma, è innanzitutto “letteratura”, e in base a criteri di ordine letterario deve essere edificato e valutato. Viceversa, gli scrittori italiani contemporanei sceglievano per lo più, secondo Bassani, strade diverse e a suo avviso sbagliate: quella dello sperimentalismo formale e linguistico (che fa della letteratura un puro gioco intellettualistico, senza alcun contatto con la realtà e senza preoccuparsi del pubblico), quella del romanzo a tesi (che si serve dei personaggi come «burattini» per illustrare tesi e princìpi astratti di natura filosofica, ideologica o religiosa) e quella del neorealismo (che riduce la narrativa a mero documento, denuncia sociale o cronaca).
Di conseguenza, l’arte e la letteratura, per essere tali, per diventare «poesia», devono saper andare di là dal cuore (e dal ventre), ossia fuggire con tutte le loro forze l’autobiografismo e il sentimentalismo; “poeta” è infatti solo colui che, a carissimo prezzo, sa staccarsi da sé e morire al proprio io, per scomparire nelle cose che raffigura e annullarsi in esse, conscio di «tutto il falso che c’è nell’esser buoni con se stessi e con le proprie emozioni, affetti, eccetera, nell’essere indulgenti colla propria vita e con la propria letteratura» (come scrisse Bassani dal carcere ai suoi familiari nel 1943). E in un’intervista del 1991 ribadì che lo scrittore non deve identificarsi totalmente con la sua materia, ma deve oltrepassare e superare le passioni individuali e gli interessi pratici; anche se parla in prima persona e mette in scena sé stesso, questo sé stesso non deve coincidere totalmente con l’autore, perché anche il personaggio che dice “io” resta comunque un personaggio, ossia una creazione letteraria. Altrimenti, al solito, non siamo di fronte a un romanzo, ma a una confessione o a un puro documento: magari nobile, alto, utile, ma sostanzialmente diverso da un’opera d’arte e di “poesia”.
Ecco, Se questo è un uomo appariva a Bassani – magari a torto, come oggi conferma il commento di Cavaglion: tuttavia, non è questo il punto – soltanto un nobile, alto e utile “documento”, dominato da quella che Luigi Russo aveva definito «oratoria del gusto», un libro-memoria, un libro-denuncia, un libro-cronaca, ma non un romanzo, anche per la mancanza in esso di quel “distacco” che per lui la letteratura esigeva dallo scrittore, e che gli sembrava invece presente nel Campo degli ufficiali, un romanzo in cui – come scrive Pampaloni – Carocci «tende a esprimere il dolore come un fatto naturale della vita», con una «sobrietà» che egli non smarrisce anche quando racconta «i momenti più drammatici della sua esperienza», grazie alla sua visione «amara» ma «mai lamentosa della vita».
Il giudizio bassaniano su Levi si trova in un saggio del 1971, Lettere d’amore smarrite, nel quale vengono riproposti all’attenzione alcuni romanzi e racconti italiani apparsi nel secondo dopoguerra, tra la liberazione e i primi anni ’60, cui non arrise il consenso della critica e presto caduti o quasi nell’oblìo: Casa d’altri di Silvio D’Arzo, Zebio Còtal di Guido Cavani, Le finestre di Piazza Navona di Silvio D’Amico, oltre al Campo degli ufficiali di Carocci. In questo, si constata la tipica predilezione di Bassani per gli autori “minori” e meno fortunati, alcuni dei quali egli stesso scoprì e pubblicò nelle vesti di redattore di «Botteghe Oscure» (dal 1948 al 1960) e di direttore della collana «Biblioteca di letteratura» di Feltrinelli (tra 1958 e 1963). Ma c’è ben altro: c’è soprattutto, in questo saggio, la volontà di contrapporsi alle due tipologie allora più “forti” di letteratura, la neoavanguardia e il neorealismo, sostenute entrambe da quella critica marxista che sempre aveva mostrato diffidenza o addirittura aperta avversione nei confronti dell’arte bassaniana. Una contrapposizione che coinvolge anche l’idea secondo cui il primum della letteratura deve essere l’impegno critico, civile e sociale, cosicché necessarie e sufficienti, a decretare il valore di un testo letterario, sarebbero la nobiltà degli ideali cui esso si ispira e la rilevanza storico-sociale-politica dei temi che affronta.
Qui sta la prima radice delle riserve di Bassani sui romanzi di Primo Levi: secondo l’autore del Giardino, non basta la tragica grandezza dell’argomento, né la drammatica evidenza della testimonianza, né la piena sincerità della confessione autobiografica a farne veri e propri romanzi, anzi proprio quelli sono i tarli che minano la loro compiuta realizzazione come opere d’arte. Probabilmente, Bassani avrebbe sottoscritto nella sostanza queste parole che Indro Montanelli annotò nei suoi diari il 1° ottobre 1966, dopo aver assistito al film La battaglia di Algeri di Gillo Pontercorvo:
«A Venezia lo hanno definito, all’unanimità, un grande film e gli hanno dato il Leon d’oro. È invece solo un grande documentario e non meritava nulla. Siamo stufi di questa roba. Non – come dice qualcuno – perché c’impongono una «scelta morale» o ci ricordano corresponsabilità che vorremmo dimenticare. E nemmeno perché siamo nauseati dalle scene di violenza e di sangue. Quello di cui siamo stufi è, molto più semplicemente, il ricatto a cui ci sottopongono. Bella forza fare un film sui campi di concentramento nazisti e sulla rivolta in Algeria. Chi oserà dar torto a un regista che parteggia per i perseguitati? Sono posizioni facili e di tutto comodo. Ma è proprio a questo che il pubblico si ribella. Non vuol essere moralmente coartato, e ha ragione».
La risposta di Bassani a Se questo è un uomo è la “storia ferrarese” Una lapide in Via Mazzini, che rievoca non la vita nei campi di sterminio, ma la vita di dopo, quella di chi è sopravvissuto ed è tornato (Geo Josz), ma senza riuscire a integrarsi, a farsi accettare dagli “altri”, e descrive al tempo stesso l’insofferenza, il fastidio, l’ipocrisia, la voglia di dimenticare dell’Italia post-bellica, di una città come Ferrara in cui ancora gira indisturbato chi era stato fascista, e dove anche i liberatori si comportano con Geo Josz in modo arrogante e prevaricatore. Un’altra risposta di Bassani a Se questo è un uomo è il Giardino, che invece descrive la vita degli ebrei a Ferrara prima della Shoah (anche se la casa e il giardino dei Finzi-Contini diventano a un certo punto, soprattutto dopo le leggi razziali del ’38, una anticipazione e una prefigurazione dei lager, tanto che tutti i lori abitanti e frequentatori – eccetto il protagonista, che ne fugge o meglio ne è cacciato in tempo – moriranno, compresi i non ebrei). L’esperienza dei campi non è descritta, perché Bassani non l’ha vissuta in prima persona, ma anche perché Bassani si muove sempre ai margini e tra le pieghe della storia (grande o piccola che sia), nel prima e nel dopo, cioè, senza mai metterne in scena il momento culminante: così è per il suicidio di Athos Fadigati negli Occhiali d’oro e per quello di Edgardo Limentani nell’Airone, nonché, appunto, per la deportazione e la morte dei Finzi-Contini (e anche, sempre nel Giardino, per gli incontri amorosi fra Micòl e Giampiero Malnate); ma il fenomeno è ben evidente fin dalle Storie ferraresi, dove parimenti gli eventi intorno ai quali ruotano molti dei racconti non trovano posto, dalla morte di Clelia Trotti, al suicidio di Geo (se fu tale), fino alla fucilazione degli undici antifascisti a Ferrara in una lugubre notte autunnale del ’43. Reticenza, dunque, pudore, riluttanza a collocare in piena luce il drammatico atto finale di una vita o di un avvenimento storico, anche per evitare l’eccessivo coinvolgimento personale ed emotivo, il sentimentalismo, il facile effetto sul lettore. Del resto, anche la dura polemica di Bassani contro il film che Vittorio De Sica trasse nel 1970 dal Giardino dei Finzi-Contini scaturì da motivazioni di questo genere: rispetto al romanzo, il film a suo parere “dice troppo”, risulta «sentimentale» e «didascalico», fino ad inventare di sana pianta episodi assenti nel libro – in primo luogo, quello della deportazione in Germania del padre del protagonista – al solo scopo di accrescere il patetismo del racconto.
Tornando al rapporto fra Bassani e Levi, va poi tenuta nella debita considerazione anche la loro diversa visione dell’identità ebraica. Primo Levi respingeva con forza l’idea tradizionale della “passività” dell’ebreo, l’idea cioè dell’ebreo mite e imbelle, uomo più di riflessione che di azione, prevalentemente concentrato sull’attività intellettuale; un’idea invece condivisa da Bassani, come emerge dai suoi libri, dove risalta una descrizione assai critica della comunità ebraica ferrarese, i cui membri (a cominciare dal padre del protagonista autobiografico degli Occhiali d’oro e del Giardino) vivono in una sorta di limbo idealizzato, inerti e acquiescenti, e sono incapaci di comprendere la storia e dunque di agire come i tempi richiederebbero. Tutti noi ricordiamo, a questo proposito, l’isolamento orgoglioso dei Finzi-Contini, o la colpevole sottovalutazione del fascismo da parte del padre e degli altri parenti del narratore. Non per nulla, Bassani scrisse di aver rifiutato l’identificazione di se stesso come ebreo e prese apertamente le distanze dalla propria identità ebraica, affermando che questa rottura coincise per lui con l’ingresso nelle file dell’antifascismo militante clandestino, con una scelta vissuta come antitetica alla atavica “passività” dei suoi «corrazziali» (come egli stesso li definiva). Donde quello che è stato definito il suo “doppio esilio”: dalla comunità italiana (in quanto ebreo perseguitato) e da quella ebraica (da lui più volte duramente criticata e infine abbandonata).
Tuttavia, il confronto con Levi, per uno scrittore come Bassani, ebreo e impegnato nella ricostruzione letteraria della questione ebraica in Italia tra fascismo e secondo dopoguerra, era ineludibile. Né è da credere che egli non riconoscesse l’importanza e la forza dei romanzi di Levi. Lo dimostra in primo luogo la vera e propria “citazione” da Se questo è un uomo che si registra nel Giardino, e che – nella calibratissima orditura letteraria di questo romanzo – vale come un innegabile riconoscimento tributato allo scrittore torinese e al suo primo e più celebre libro. Siamo nel terzo capitolo della parte seconda, dove viene presentato uno dei protagonisti del romanzo, Giampiero Malnate, il chimico milanese impiegato presso una fabbrica di gomma sintetica appena fuori Ferrara, che si reca a giocare a tennis dai Finzi-Contini insieme al protagonista, a Bruno Lattes e ad altri giovani nell’autunno del ’38: non tutti i giorni, però, perché «aveva da fare i conti con gli orari di fabbrica; orari non severissimi, è vero, dato che di gomma sintetica lo stabilimento Montecatini dove lui lavorava non ne aveva prodotto neanche un chilo». Parole tratte quasi alla lettera, queste ultime, dal capitolo settimo di Se questo è un uomo, dal titolo Una buona giornata, dove si descrive la fabbrica della Buna (attigua al campo di Monowitz, o Auschwitz III, in cui l’autore era prigioniero), che era anch’essa una fabbrica di gomma, ma dalla quale – precisa Levi – «non uscì mai un chilogrammo di gomma sintetica». Come si sa, anche Primo Levi era un chimico, e, al pari di Malnate, lavorava alla Montecatini (ad Avigliana, poco fuori Torino); e per l’appunto un Levi di Torino compare anche nel Giardino fra i giovani compagni di studi del fratello del protagonista, Ernesto, iscritti al Politecnico di Grenoble, insieme, tra gli altri, a un Pincherle di Roma, dietro il quale si nasconde senza dubbio Alberto Moravia, altro grande scrittore ebreo italiano del ’900 e altro autore – nuovamente – poco congeniale a Bassani, ma da lui comunque accomunato a Levi in questa sorta di personale e discreto “omaggio” che li ammette nel ristretto pantheon letterario del Giardino. Al di là delle divergenze di vedute, dunque, Bassani – e ciò torna a onore della sua obiettività e serenità di giudizio – non volle omettere la menzione di Primo Levi (e di Moravia) in quel Giardino dei Finzi-Contini che intendeva essere in prima istanza un romanzo sulle cause storiche della persecuzione ebraica in Italia e, insieme, un commosso tributo ai milioni di ebrei perseguitati ed uccisi dalle dittature nazi-fasciste.
Si dirà, ed è stato detto da alcuni, che la vernice malinconica e intimistica stesa senza risparmio sul Giardino lo priva della straordinaria forza d’urto di Se questo è un uomo: ma, a parte l’improprietà di un confronto impostato in questi termini (visto il diverso argomento e la diversa ambientazione dei due romanzi), la causa deve ricercarsi nella peculiare poetica di Bassani, che assegna alla letteratura in prima istanza una funzione catartica e anche – nel senso più nobile del termine – consolatoria, affidata alla “bellezza”, alla struttura narrativa e dunque, in ultima analisi, alla “cultura”, intesa come arma principe da opporre alla barbarie dell’irrazionale. Bassani non concordava certamente col celebre detto di Adorno – dal filosofo stesso, peraltro, poi rinnegato o, per dir meglio, precisato – secondo cui dopo Auschwitz la poesia non sarebbe stata più possibile, tanto che nel romanzo di Carocci egli apprezzava proprio la capacità di aprire insospettati squarci poetici nella tragicità delle situazioni descritte, e lo stesso Giardino, come d’altronde tutta l’opera bassaniana, è pervaso dall’idea secondo cui la letteratura può restituire dignità e persino esistenza, con una sorta di postumo riscatto, alle vite offese dalle ingiustizie della storia. Ma il Giardino pretende di andare oltre il “documento”, allo scopo di diventare un vero e proprio “romanzo di formazione”, nel quale la “Storia” non è che una componente di un doloroso itinerario esistenziale in cui ognuno possa riconoscersi, anche se non è stato ebreo nell’Italia del fascismo e della guerra. Una portata universale, questa, che Bassani riteneva tratto distintivo della vera letteratura, e che non annetteva a Se questo è un uomo, la cui tematica “estrema” ed “eccezionale” risulta lontana dalla nostra comune esperienza, a differenza delle storie “borghesi” di esclusione, di solitudine e di isolamento che popolano il Giardino e gli altri libri bassaniani.
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*Francesco Bausi (Firenze 1960) è professore ordinario di Filologia italiana e di Letteratura italiana medievale presso l’Università della Calabria. È direttore della rivista di studi quattrocenteschi «Interpres», membro delle Commissioni per l’edizione nazionale delle opere di Niccolò Machiavelli e di Giosue Carducci, coordinatore (con Vincenzo Fera e Silvia Rizzo) del «Progetto Poliziano», supervisore filologico dell’edizione delle Lettere di Lorenzo de’ Medici, membro dell’Advisory Committee della collana «I Tatti Renaissance Library» (pubblicata dalla Harvard University), membro del comitato scientifico delle riviste «Schede Umanistiche», «L’Ellisse», «Ecdotica», «Italian Poetry Review», «Per leggere». Filologo e storico della letteratura, ha studiato in prevalenza la civiltà letteraria del Quattro e del primo Cinquecento, le letteratura medievale, la storia della metrica italiana, la letteratura otto-novecentesca, pubblicando, su questi e su altri argomenti, circa 200 saggi in riviste italiane e straniere, in volumi miscellanei o in atti di convegni. Inoltre ha curato le edizioni delle Silvae (1997), delle Poesie volgari (1997), di Due poemetti latini (2003) e delle Poesie (2004) di Angelo Poliziano, degli Epigrammi di Ugolino Verino (1998), della disputa epistolare tra Pico ed Ermolao Barbaro (1998), delle opere complete (in CD-rom, 2000) e della Oratio de hominis dignitate di Pico (2003), dei Discorsi di Machiavelli (2001, nell’àmbito dell’Edizione Nazionale), delle Invective contra medicum e della Invectiva contra quendam di Petrarca (2005). In volume ha pubblicato: La metrica italiana (con Mario Martelli, 1993), Nec rhetor neque philosophus. Fonti, lingua e stile nelle prime opere latine di G. Pico della Mirandola (1996), Machiavelli (2005), «Il poeta che ragiona tanto bene dei poeti». Critica e arte nell’opera di Severino Ferrari (2006), Petrarca antimoderno. Studi sulle invettive e sulle polemiche petrarchesche (2008), Dante fra scienza e sapienza (2009), Umanesimo a Firenze nell’età di Lorenzo e Poliziano (2011).
Ho trovato questo articolo molto interessante.
Mi è piaciuta molto questa definizione: “essere letterato e poeta richiede l’assunzione di un punto di vista «esistenzialistico e metastorico» rispetto alla materia trattata: ciò comporta da un lato il superamento del “particolare” nell’ “universalmente umano”, dall’altro la costruzione di un’opera-microcosmo, un organismo formale, cioè, che vive di vita propria e obbedisce a leggi proprie, a principi essenzialmente poetici e architettonici. Il romanzo, insomma, è innanzitutto “letteratura”, e in base a criteri di ordine letterario deve essere edificato e valutato”; la condivido questa definizione, anche se a mio modesto parere non ci può essere una sola definizione di chi sia un letterato e di cosa sia un romanzo; penso che Se questo è un uomo non sia la semplice testimonianza di un evento storico a cui chi scrive ha partecipato; credo che abbia la caratteristica di superare il particolare nell’universale umano; da questo punto di vista credo che una prova magnifica l’abbia data, rispetto al periodo storico della seconda guerra mondiale, Fenoglio, con il suo Il partigiano Johnny.