Manhattan, 14 dicembre 2010
Il New York Times di ieri riportava un articolo su un giovanotto che, reagendo a una delusione amorosa con implicazioni immobiliari (aveva comprato un appartamento a Manhattan insieme con la fidanzata, ma poi aveva dovuto lasciarlo quando il rapporto tra i due si era rotto), ha adottato un nomignolo pittoresco, ” Il nomade di New York”, e ha intrapreso il seguente programma: cambiare di abitazione e quartiere ogni settimana per un anno intero. Potrebbe uscirne un libro, o un film, o tutti e due. Ma qui si cita questo episodio da leggenda urbana semplicemente per notare le possibilità creative di un viaggio dentro la città. E viene in mente l’esperienza di pochi giorni or sono …
Metti che uno abbia accettato l’invito a presentare un romanzo presso la sede newyorchese della “Rai Corporation”, la quale si è trasferita dalla zona di midtown a quella di downtown, e metti che costui non abbia ancora visitato la sede nuova — anche perché la sua zona di vita e lavoro è uptown. (Egli ricorda ancora una sua conversazione di molti anni fa con Michel de Certeau nel campus quasi balneare dell’Università della California a San Diego — dunque in un territorio incongruo per entrambi — in cui de Certeau gli spiegava che una grande città come Parigi è in realtà un complesso di villaggi, i cui abitanti restano attaccati alla loro piccola località; aveva ragione, e la stessa situazione vale per New York.) Avendo costui appena finito una riunione nella zona di Washington Square decide di andare piano piano, a piedi, verso la RAI.
Il modo migliore di percepire New York è in effetti quello di camminarla; anche se oggi è la prima giornata di clima invernale, il freddo è tagliente, e sulle quattro del pomeriggio (la presentazione avrà luogo alle ore diciotto) è già crepuscolo. In ogni caso, la città mantiene la sua promessa di magia (è un luogo comune, ma che farci? è vero). Quest’oggi poi la magia si realizza anche come una forma di sincronicità: il camminante ha appena finito di leggere, nella rubrica che appare con cadenza occasionale sul settimanale The New Yorker sotto il titolo “Storie personali”, la narrazione di Joyce Carol Oates la quale rievoca, nel suo stile asciutto e spietatamente leggibile, la morte recente del suo sposo dopo un lungo matrimonio. Quella narrazione riverbera all’indietro (verso gli estratti dal “Diario di lutto” di Roland Barthes letti mesi or sono sulla stessa rivista) e in avanti: il romanzo che verrà presentato fra poco si apre con la descrizione di una morte improvvisa.
E, per dirla tutta, nei quartieri che ora costui sta attraversando (Noho, Soho) il crepuscolo natalizio emana a tratti un’aria un po’ sinistra — anche se forse si tratta soltanto della suggestione di due notizie lette nello stesso quotidiano a pochi giorni di distanza: un delitto passionale in un elegante albergo-club di Soho, e sempre a Soho, lungo una di quelle strade che a lui evocavano una certa atmosfera allegramente scapigliata, il suicidio del figlio dell’autore di una gigantesca truffa, a due anni di distanza da quello scandalo …
Insistenze un po’ morbose nella mente del camminante? Ma no. In verità quella che emerge, passo dopo passo nell’aria fredda, è il pullulare della vita nelle sue varie forme, per cui la scomparsa di un essere umano (senza voler diminuire nemmeno per un attimo la sua dolorosità) evoca anche, molto spesso, un crocicchio di nuove energie. Per esempio, quelle notizie di cronaca nera simboleggiano anche la promozione sociale o nobilitazione o gentrification di questi quartieri; dove, accanto ai teatrini d’avanguardia alle piccole gallerie d’arte alle boutiques ai caffè ai pub agli appartamentini più o meno slabbrati e più o meno zingareschi, si annidano discretamente alcuni club eleganti e tanti lofts (ovvero piccionaie di lusso).Il presentatore intanto è arrivato nel quartiere detto Tribeca. E’ in anticipo sull’ora dell’invito, il freddo si fa sempre più duro, il quartiere in questa zona e a quest’ora appare più vasto e impersonale della Tribeca che lui ricorda: la gente s’affretta a casa a testa bassa le luci sono poche i ristoranti radi e ancora immersi nel dormiveglia che precede l’affluire degli avventori. Il promeneur finisce col rifugiarsi, prima al banco di una trattoria semispenta (un caffè macchiato), poi in un caffeuccio (un cappuccino) — e solo dopo essere uscito dal secondo locale si rende conto della coincidenza, aneddotica forse, ma che attende uno studio sociologico: tutti e due questi luoghi di ristorazione in cui lui è capitato a caso sono autenticamente italiani; è una novità rispetto alla vecchia Tribeca — e, a modo suo, è un altro segno di promozione sociale.
Ma è arrivata l’ora dell’incontro. Il visitatore attraversa un largo spiazzo battuto dal vento gelido e approda a un enorme palazzo giallo-arancione dall’aspetto vagamente surreale: la RAI (che ne occupa il venticinquesimo piano) è tornata all’atmosfera delle piazze di De Chirico — e va benissimo. Peccato che l’aria al piano RAI sia quella troppo solita negli uffici italiani: il personale oggi è in sciopero (come viene comunicato al visitante con il tono compunto che in Italia si riserva per le manovrette sindacali); il che vuol dire, tanto per cambiare: qualche gruppetto di persone che chiacchierano con aria fiacca e auto-importante, e un cireneo che lavora per dieci disponendo tutto il necessario nella saletta delle conferenze. I poco favorevoli auspici sembrano peggiorare quando per molti minuti la saletta risulta occupata solo dai presentatori e dal gruppo familiare-amicale (compresi i due figlioletti) che accompagna l’autrice.
Ma poi scatta il miracolo italiano: piano piano la gente arriva e la saletta finisce col riempirsi quasi completamente, il moderatore è garbato, i due presentatori si impegnano, le domande alla fine non sono prive di interesse, e l’autrice risponde a tutti con qualche tocco che va al di là della solita diplomazia letteraria. Niente di straordinario, in un contesto italiano: ma nettamente superiore alla media, se si pensa a quello che sarebbe l’abituale contesto nordamericano. Questo è uno dei molti casi in cui il disfattismo italiano continua a sbagliare il suo bersaglio: invece che lamentarsi genericamente dello stato della respublica litteratorum in Italia (salvo poi omaggiare i soliti noti, come fanno certi libretti di pronto intervento), e invece di celebrare indiscriminatamente tutto quello che viene dall’America, forse sarebbe meglio per il critico italiano fare veramente ”mente locale” (e poco importa che la localizzazione di questa mente italiana abbia luogo a Roma o a New York, a Venezia o a San Francisco o altrove), e riconoscere che la media discorsività italiana nella presentazione letteraria è nettamente superiore alla media discorsività americana nelle occasioni analoghe — quest’ultima esprimendosi troppo spesso in due o tre battute pseudo-modeste e pseudo-antintellettuali, seguite da un piccolo giro di autografi.
Ma adesso, non sarebbe ora di parlare del romanzo? Beh, sì, ma non per farne strettamente parlando una recensione (termine che comunque ha una connotazione un po’ oppressiva e fiscale), bensì piuttosto un discorso che lo contorni — un “ collaudo” come aveva brillantemente inventato Marinetti. Questo collaudo, del resto, nel caso presente ha già avuto inizio: perché stabilire il contesto di situazione in cui si arriva pian piano a parlare di un romanzo è già un modo di cominciare a parlarne. Dunque, l’oggetto del discorso è Se tu fossi qui, di Maria Pia Ammirati, pubblicato quest’anno da una piccola casa editrice milanese (Cairo Editore). Il titolo evoca potenzialmente un’atmosfera romanticheggiante la quale in effetti riappare nella poesiola conclusiva: ma fortunatamente questi elementi paratestuali non riflettono la sostanza del testo che vi sta in mezzo.
Se nessun romanzo appena appena interessante può essere definito con una formula, è anche vero che nessun romanzo appena appena interessante può evitare di offrirsi a una definizione riassuntiva. Se tu fossi qui non si può definire — nonostante certe apparenze tematiche (vedi sopra) — un romanzo d’amore; e non può nemmeno essere definito , nonostante alcune apparenze ancora più appariscenti, un romanzo di lutto. Questo invece è un romanzo d’azione; anche se (o: soprattutto perché) l’azione è fatta di piccoli gesti quotidiani quasi claustrofobicamente circoscritti — in un luogo che diventa uno spazio particolare e intenso.
Un giovane marito e padre scopre che la giovane moglie è improvvisamente morta nella stanza accanto, e subito si mette freneticamente all’opera per sbrigare tutte le tristi necessità del caso senza che le due figlie piccole si accorgano di quello che è successo. A un certo punto tutto sembra sotto controllo; ma poi il neovedovo trova il cellulare della moglie — e qui, se si trattasse di un film, il recensore si interromperebbe con discrezione per non guastare, come suol dirsi, la sorpresa dello spettatore. Ma siccome il romanzo è un genere più adulto di quel che sia un fim, esso può ben sopravvivere a un riassunto completo — tanto più che la sorpresa è, di per sé, forse la parte meno interessante di questo romanzo.
Siamo abituati ormai, in romanzi e film, ai momenti in cui l’improvvisa scomparsa di una persona dalla vita apparentemente trasparente rivela il suo lato più complicato, il lato tenuto oscuro. (E’ ben vero che la vita di ognuno di noi è un romanzo : ma pochi trovano il coraggio necessario anche solo per leggersi dentro la testa il proprio romanzo-vita, e pochissimi hanno i doni — e l’indispensabile crudeltà di re-invenzione — per scriverlo.) Era prevedibile, insomma, che rintracciare le conversazioni della moglie portasse alla scoperta di qualche, come suol dirsi, “altarino” — di qualche segreto.
E in effetti si potrebbe tracciare una sorta di itinerario tecno-psicologico delle scoperte di questa natura cui abbiamo assistito negli ultimi anni in Italia: basti menzionare il film del 2001 di Ferzan Ozpetek, Le fate ignoranti, dove il sospetto post-mortem sorgeva da un messaggio tradizionalmente grafico e portava allo svelamento di un legame omosessuale; e il romanzo — ma si vedeva che fin dall’inizio era stato immaginato come un film — Caos calmo di Sandro Veronesi del 2005, dove la scoperta, che riguardava un legame romantico eterosessuale la cui possibile consumazione era lasciata nel vago, avveniva in modo tecnologicamente più avanzato (ispezione della posta elettronica — che era già da tempo divenuta un topos delle vite fedifraghe prima ancora che della scrittura). Se tu fossi qui continua questo itinerario: la tecnologia adesso è quella dei messaggini telefonici, e la novità psicologica è che il rapporto sentimentale, dichiaratamente platonico, coinvolge la giovane sposa e madre con un uomo che ha passato i settanta. (Ogni modulazione narrativa finisce poi per diventare tendenza: per esempio, il nuovo film La bellezza del somaro descrive la storia d’amore fra un settantacinquenne e una diciottenne.)
Ma come si diceva, non è in questa rivelazione che risiede l’interesse precipuo del romanzo — esso consiste piuttosto nel senso generale di azione: la minuzia formicolante e affannosa con cui si descrivono le attività del protagonista. L’autrice ha saputo “infilarsi nella testa di un uomo” (come lei stessa ha detto durante la presentazione), creando un credibile protagonista di sesso maschile: è come una boccata d’aria fresca, dopo le divisioni ideologiche degli “ismi”amazzonici che sono parte della deprimente tendenza generale a un nuovo tribalismo (particolarmente forte negli Stati Uniti, ma non solo); per cui solo le donne sarebbero autorizzate a rappresentare personaggi femminili, solo i gay potrebbero descrivere i gay, solo persone di colore avrebbero licenza di scrittura rispetto a personaggi di colore, e così via. Il tocco più persuasivamente bizzarro del romanzo, comunque, non riguarda i rapporti fra i sessi: è il forte bisogno di comunicazione, quasi di conforto, che a un certo punto il protagonista prova (alla faccia di certe superstizioni e ossessioni tipicamente italiane) verso l’impresario delle pompe funebri, il quale gestisce con calma competenza tutto il lavorio del lutto, e che il vedovo chiama”il capo”.
E qual è l’Italia che viene fuori dal romanzo? (Domanda necessaria, perché una qualche estrapolazione è indispensabile, soprattutto nella situazione sempre più internazionalizzata della letteratura italiana e della sua critica: situazione che offre possibilità non ancora completamente utilizzate, e al tempo stesso porta a proliferanti confusioni.) Tutto sommato, si tratta di un’Italia abbastanza tradizionale : il marito lavora (a un impiego non meglio specificato), mentre la moglie fa la mamma; e poi, c’è la rete protettiva della famiglia allargata: la sorella del protagonista e la famiglia della moglie si mobilitano subito per gestire le bambine (ed è anche, indirettamente, una compensazione per la storia drammatica che sta dietro alla famiglia del vedovo). Per fortuna, Maria Pia Ammirati accoglie tutto questo senza mettersi ideologicamente sulla difensiva.
Questo è un romanzo senza eroi e con una conclusione non negativa ma nemmeno troppo edificante. Non è parsa, in effetti, molto persuasiva l’indicazione dell’autrice durante la discussione, secondo cui la traiettoria del protagonista sarebbe il passaggio dalla non-autenticità all’autenticità — categorie un po’ pesanti e abbastanza moraviane, che non si adattano alla semplicità descrittiva di questo romanzo. Il realismo della narrazione si realizza qui soprattutto nel tono di accettazione delle spigolosità quotidiane, senza tentativi di sublimazione: per esempio, il narratore non si vieta di vedere ciò che vi è di grottesco, nelle sue manovre affannose per spostare il cadavere della moglie — e non reprime la componente di irritazione che a volte emerge in lui verso quella morte improvvisa, vista (secondo un diffuso processo psicologico) un po’ come se fosse stato un gesto di abbandono voluto; per non parlare della sua gelosia postuma verso la relazione clandestina per quanto platonica. Tutto ciò contrasta positivamente con quello che (in attesa di trovare un termine meno barocco) si potrebbe chiamare l’edificantismo imperversante nei romanzi e nei film italiani correnti.
Il linguaggio del romanzo è in sostanza la “voce” del suo protagonista: una voce coerente e credibile nel suo tono di, per dir così, senso comune — con la dura accettazione della vita che è una delle componenti di quell’atteggiamento in fondo strano (e a volte straniante) che è il senso comune. In questa quasi inflessibile coerenza linguistica pare affiorare solo un attimo di incertezza; e non sembri pedanteria, se uno si sofferma un istante su di esso: è un’incertezza per la quale invece si deve essere grati, perché per esempio potrebbe anche essere un utile momento di lavoro nella sessione di un laboratorio di scrittura dedicata al problema della voce narrativa.
Si tratta di quello che è forse l’unico passo di cruda descrizione nel romanzo: il narratore parla, a proposito di quella donna che è appena diventata un cadavere, della sua “bocca semiaperta” e della “sconcezza dei suoi pantaloni umidi di pipì” (p.14). Ecco: una parola come “pipì” non appartiene veramente al linguaggio del narratore. Sembra di sentire emergere, dentro la voce fuori campo dell’uomo che narra, le vocette delle sue bambine — con un effetto di interferenza. O forse no — forse la questione è più delicatamente complessa: è probabile infatti che in questo eufemismo affiori per un istante la voce dell’autrice, con un tocco di pietas che in tempi meno ideologici si sarebbe definito (e sarebbe stato giusto) squisitamente femminile. Così ogni problema estetico, per quanto piccolo, rivela il suo lato psicologico e morale: insomma, questo è un po’ anche un problemino etico …
Uscendo dal palazzone nella notte dove intanto sono spuntate tutte le luci (che peraltro non stanno vincendo il freddo, in tutti i sensi, di questo momento nella vita cittadina, e non stanno ancora creando un’atmosfera che si possa dire natalizia), il nuovamente camminante continua a ruminare su certi concetti che non aveva fatto a tempo a sviluppare nella sua presentazione. Come la necessità dell’estrapolazione. E’ almeno dai tempi di Maurice Blanchot che si lamenta l’impossibilità per il critico di controllare la massa di tutto ciò che viene pubblicato, anche limitandosi a un solo genere e a una sola comunità (diciamo, il romanzo di questi anni in Italia). Di fronte a questa situazione, la reazione più difffusa sembra anche la più discutibile: una sorta di antologizzazione prematura che risulta in un abbozzo di canonizzazione, tanto più aggressivo quanto più incerto sulla propria effettiva autorità. Meglio, allora, l’estrapolazione: che accetta la modestia della sua non-scelta perché quello che le interessa non è assegnare voti ai singoli autori, ma seguire le peripezie della narrativa attraverso quegli epifenomeni che sono i romanzi.
E l’altro concetto cui pensa il flâneur( mentre scende la scala della stazione della metro che lo porterà verso la sua zona nord-occidentale di Manhattan) è l’integrità — categoria che è in tensione con quella di integrazione. Anche Barthes parla (Diario di lutto, p. 187) dell’integrazione come di un potere apotropaico conferito dalla scrittura — il potere di far entrare dentro un insieme, di federare, di socializzare. L’integrità, beninteso, non è qualcosa che direttamente si oppone a tutto ciò:d’altra parte, sarebbe ingenuo pensare che l’integrazione venga sempre a premiare l’integrità. Spesso lo scrittore che valuta la propria integrità ne paga il prezzo con un certo isolamento, con una certa disgregazione del legame federativo; così che l’integrità può finire col nascondersi nei luoghi narrativamente meno visibili. Questo rischio di non-socializzazione, o socializzazione difficile, il romanzo italiano non lo corre abbastanza spesso; e i risultati del non-rischio sono sotto gli occhi di tutti i lettori. Vale la pena allora di sperimentare l’esplorazione paziente, e il vagabondaggio.
Paolo Valesio*
Columbia University
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*Per la biografia di Paolo Valesio si veda “Il pensiero itinerante 1”