di Luca Ormelli
«Noi uomini siamo pensieri congelati di Dio,
il fuoco interiore, ispiratoci da Dio,
lotta con il gelo che ci circonda come un corpo,
o riesce a scioglierlo, oppure viene soffocato –
in entrambi i casi l’uomo muore» [2633].
Di Friedrich Hebbel (1813-1863) il lettore italiano dispone di ben pochi titoli voltati nella propria lingua e di questo esiguo numero di titoli la maggiore rilevanza accordata dall’editoria indigena è stata sin da subito destinata ai Diari [i] la cui prima edizione nazionale risale al 1919 per i tipi della Carabba di Lanciano che pubblicò una selezione dell’ingente lascito memoriale del Nostro ad opera di Scipio Slataper e Marcello Löwy. Ma l’Hebbel che qui oggi vogliamo ricordare e promuovere al giudizio del lettore fu in primis un drammaturgo ed un poeta, l’autore di un teatro Ottocentesco di matrice borghese preconizzante il naturalismo viscerale e fortemente allegorico dei numi del Nord, Ibsen e Strindberg. In special modo allo svedese corrispondente di Nietzsche mi sento di accostare Hebbel che, nato in una famiglia umilissima (il padre era manovale), tedesco di quella Sassonia storicamente contesa tra i teutoni ed i danesi, per intercessione della madre fu istradato alla scuola e dappoi entra a servizio del locale magistrato nominato dal governo danese ed incaricato di amministrare la giustizia dalla biblioteca del quale attinge le sue prime, molteplici letture. Si iscrive alla facoltà di giurisprudenza di Heidelberg nel 1836 ma ben presto rinuncia agli studi di diritto per dedicarsi, coadiuvato dalle benemerenze di una filantropa di Amburgo, Amalia Schoppe, alla carriera di uomo di lettere. Dell’ancestrale povertà e frugalità della propria infanzia ed adolescenza Hebbel conserverà la spigolosità del carattere, la ruvidezza e l’insopprimibile opportunismo di chi molto ha sofferto e si sente a credito in un mondo avvertito e percepito sin dalla nascita come ostile ed avverso all’uomo. Lo stesso stile di scrittura del Nostro e particolarmente nei Diari attinge a piene mani alle similitudini della vita attiva, concreta del proletariato di quella Germania che si affaccia sulle brume spazzate dal vento e dalle intemperie del Mare del Nord ma che, nella borghesia di Amburgo ha saputo incarnare al meglio quella vocazione all’intraprendenza commerciale anseatica immortalata poi dal Mann dei Buddenbrook. Hebbel è un irrequieto, in tutto e per tutto un romantico tardivo ma che del romantico tedesco mantiene quel tratto peculiare di “ambivalenza” segnalato da Ladislao Mittner in una sua magistrale lettura di Novalis: «[L’uomo romantico, ndr] è l’uomo dei dilemmi che però non vuole neppure lontanamente risolti e, risolti che li abbia, ne crea di nuovi, perché il dilemma irresolubile, il movimento a pendolo dall’uno all’altro corno del dilemma è per lui la forma stessa dell’esistenza» [Ladislao Mittner, “Lettura di Novalis” in Ambivalenze romantiche, Messina-Firenze, 1954], considerazione questa sorprendentemente prossima ad un pensiero formulato dallo stesso Hebbel nei suoi Diari; in una lettera a Kisting (un frequentatore dei salotti della Schoppe) del 4 aprile 1842 scrive infatti: «Noi esseri miseri siamo destinati a oscillare come un pendolo tra due poli estremi e a non trovare mai il baricentro o comunque sempre a oltrepassarlo da una parte oppure dall’altra. […] Chi l’ha riconosciuto nella sua necessità non si sforzerà né di sfuggirgli né di lamentarsene perché soltanto a questo prezzo il potere eterno ci poté concedere l’esistenza, e l’esistenza la benigna possibilità della felicità…» [2526][ii]. Hebbel è un poeta-filosofo che seppure nutrito di filosofia ed in ispecie dell’idealismo del circolo di Jena era assai critico verso la filosofia (non a caso «La filosofia è una patologia superiore» [1170] ) perché è un filosofo non accademico (in questo comparabile al Nietzsche “dilettante” di genio) e permeato «di una visione profondamente terrestre, e perciò tragica, del divino immanente alle cose» (cfr. Ferruccio Masini, “Introduzione” a gli Inni alla Notte di Novalis, Garzanti, Milano, 2002). Ed il suo sentimento tragico della vita («E’ l’alternanza dei dolori che rende la vita sopportabile» [1314] – cfr. Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico della vita, Piemme Edizioni, per cui rimando al mio intervento su Amiel) attraversa in una oscillazione di «esaltazione e depressione, simile a quella dell’ubriachezza, altalenante tra una pienezza traboccante e un vuoto atroce» [548] l’intera sua opera e segnatamente i Diari che sin ab origine egli volle destinati alla pubblicazione (dopo la sua morte, come evidenzia la curatrice dell’edizione in mio possesso, la germanista Lorenza Rega); è l’autore stesso a sottolinearlo già dalla prima annotazione, scritta il 23 marzo 1835 (a 22 anni dunque si possono coltivare ben riposte ambizioni di immortalità), Diari questi che «inizio non soltanto per fare un favore al mio futuro biografo, che certamente avrò, considerate le mie prospettive di diventare immortale [ma anche perché] chi può assistere indifferente allo spettacolo di migliaia di mondi che sprofondano in lui, senza desiderare di salvare almeno il divino, sia stato esso una gioia o un dolore, che li ha percorsi? Questa è la mia giustificazione se dedico ogni giorno alcuni minuti a questo diario» [1]. E questi minuti dipanati per i cinquant’anni della sua esistenza arriveranno ad innervare nel loro eterogeneo comporsi di sottotesti più disparati, dalla semplice annotazione, all’aforisma (è lo stesso Hebbel a definire i propri fogli «una conversazione aforistica con me stesso» [5047]), alla recensione di letture o rappresentazioni alle quali il Nostro ha assistito (ed è curioso, in un borgesiano gioco di specchi e di rimandi e di consonanze come l’altro monumentale memorialista di cui ci siamo occupati, Henri-Frédéric Amiel, in una propria nota del 29 aprile 1848 si proponga una analisi di un dramma di Hebbel: «Teatro: Visto Maria Maddalena di Hebbel. […] Per me è un bel lavoro, l’idea è grande, i caratteri veri, la soluzione necessaria. […] La Virtù senza perdono è un peccato. […] Il peccatore è punito dalla parte stessa in cui ha peccato. E’ la Nemesi tragica») un corpus di frammenti (si rammenti quanto affermava Friedrich Schlegel del frammento: «Un frammento deve essere del tutto differenziato, a somiglianza di un’opera d’arte, dal mondo circostante e deve risultare compiuto in se stesso alla stessa guisa di un riccio») tra i più significativi del XIX secolo e non solo se pure personalità così diverse ma egualmente autorevoli del Novecento letterario non solo di lingua tedesca, Kafka e Brecht e von Hofmannsthal non hanno mancato di rendere omaggio all’Hebbel diarista. Kafka ebbe infatti a dichiarare ad Oskar Pollak il 27 gennaio 1904 (con una dichiarazione di poetica divenuta assai nota e citata) che dopo aver letto, sottrattosi al mondo, in due soli giorni i Diari erano questi un libro degno di essere letto perché: «A quale scopo leggere un libro se questo non ci sveglia assestandoci un pugno sul cranio? […] Noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia particolarmente dolorosa, come la morte di una persona che ci è più cara della nostra stessa vita, come se venissimo respinti in selve isolate, lontani da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro deve essere l’ascia per il mare gelato in noi. Questo penso io» (Franz Kafka, Briefe 1902-1924, Fischer, Frankfurt am Main, 1966). Brecht definì questo tentativo di darsi una forma (dice Hebbel: «Tutta la vita è il tentativo fallito dell’individuo di trovare una forma. […] Un diario segna la strada. Dunque andiamo avanti!» [2756]) una lettura avvincente anche se: «Il senso del dovere in essi mi disgusta, e così anche l’ordine, che equivale a una presunzione immensa» (Bertolt Brecht, Gesammelte Werke, Vol. XVIII, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1967). Hugo von Hofmannsthal, in una lettera scritta all’amico Schnitzler il 19 luglio 1892, così si pronunciò sulla poesia di Hebbel: «Essa (la poesia, ndr) penetra in noi in forma siffatta da sommuovere i nostri più riposti segreti […] le forze demoniache, ciò ch’è naturale in noi, risuonano in una cupa e inebriante vibrazione sintonica» (Hugo von Hofmannsthal, Briefe an Freunde, Neue Rundschau XLI, aprile 1930). Friedrich Hebbel fu dunque celebre ai suoi contemporanei in qualità di drammaturgo ma la memoria imperitura di cui ancora oggi gode è figlia di quei Diari (perché solo «il diario è all’insegna del presente» – Thomsen Hargen, Studien zu Hebbels Tagebüchern, Iudicium, München, 1994) in cui l’autore tedesco ma viennese d’adozione riversa il suo atrabiliare egoismo, un egoismo squisitamente moderno ma morale, saturnino e divorante il proprio stesso disincanto nei confronti di un mondo in cui i viventi non sono che dei nanerottoli che saltellano sotto la luce del sole, degli inutili schiavi dei giganti morti che assistono dall’alto al loro lavorìo con compassione [5992], dove solo l’arte che è la sola autentica storiografia [2079] può consentire all’uomo (di genio) di affrancarsi dal sormontante e nauseabondo continuo divenire [575]: «Chi nega l’egoismo? A cosa dovrebbero portare i raggi di un cerchio se non al centro che li tiene assieme, a cosa devono mirare gli sforzi di un individuo, che è tale soltanto grazie allo scopo in sé, se non al godimento di sé? Ma dal momento che il godimento di sé ininterrotto è costantemente collegato allo sviluppo di sé e all’autoperfezionamento e si ribalta per ogni altra strada nell’autodistruzione, questo egoismo riporta per l’appunto alla radice morale di base del mondo, e alla fine si vede che si serve il mondo soltanto nella misura in cui si ama se stessi» [5921 – mio corsivo].
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[i] Friedrich Hebbel, Diari, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia, 2009.
[ii] Riporto tra parentesi quadre il numero progressivo dell’annotazione secondo la lezione compiuta nel 1903/1904 da Rainer Maria Werner, lezione che costituisce la base per tutte le successive edizioni, sia in originale che in traduzione, e dunque anche per la presente.
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