di Bruno Nacci
(Consulente per la narrativa delle Edizioni San Paolo)
1. La scrittura non ha nulla a che vedere con la lettura, così come guidare un off-shore non ha niente a che vedere con il nuoto, anche se entrambe le attività si svolgono in mare.
2. A nessuno verrebbe in mente, ignorando il pentagramma e non sapendo suonare alcuno strumento, di mettersi al piano e di eseguire l’ Hammerklavier di Beethoven. Molti si siedono al computer o alla macchina da scrivere e iniziano il capolavoro.
2.1 Imparare a suonare il pianoforte non vuol dire diventare Arturo Benedetti Michelangeli, ma acquisire una tecnica che mette in grado di godere della musica in modo più intenso e consapevole, e si può correre con soddisfazione e profitto anche se non si va alle Olimpiadi.
3. Costruire un racconto è come costruire una sedia.
3.1 Prima di prendere un modello da imitare, chi vuole imparare a costruire una sedia deve conoscere le regole basilari della carpenteria.
3.2 Prima di imitare una sedia Luigi XVIII, normalmente si esordisce con una umile sedia da mettere in chiesa o sul balcone di casa accanto al vaso di basilico.
4. Si è mai chiesto a un falegname se costruendo sedie intende esprimere la sua concezione della vita? Oppure: che forma assumerebbe in una sedia la concezione della vita del falegname?
5. Per prima cosa la sedia deve stare in piedi, per seconda cosa deve essere quanto più comoda possibile. La sua bellezza è un dato evanescente, mutevole, imprendibile e imprevedibile, storico, come quello mitologico della bellezza femminile (in una formidabile pagina di Nerval, viene descritto lo splendido doppio mento di una signora…), e che in ultima analisi non riguarda chi fa una sedia o chi scrive un poema.
5.1 Qualcuno inizia fissando un dettagliato copione di quello che scriverà (i famosi 46 grandi fogli su cui Flaubert predispone ogni capitolo di Madame Bovary), altri naviga a vista senza sapere bene dove andrà a finire. In entrambi i casi la rotta va tracciata, in anticipo o durante la navigazione, perché in tutti i casi ci deve essere una rotta.
5.2 Per rotta si intende che non basta un’idea, un sentimento, una vaga atmosfera, e tanto meno un’ispirazione o una profonda meditazione…. Il racconto si compone di personaggi, vicende, sfondi, e tutto deve stare insieme, comporre un mondo piccolo o grande che sia, ma un mondo visitabile e coerente, abitabile per tutta la durata della lettura.
5.3 Un architetto potrà essere bizzarro o fantasioso finché si vuole ma non costruirà mai un palazzo senza scale o finestre, senza un tetto o un terrazzo di copertura, senza fondamenta.
6. Chi scrive un racconto non può raccontare quello che vede o sente, ma deve rappresentare quello che vede, costruirlo, che è molto più difficile e serve tra l’altro per riflettere sulla propria capacità di vedere (quando il procuratore nel racconto di Kafka vede Gregor tramutato in insetto sono le sue labbra sporgenti – aufgeworfenen Lippen-, protese come un grido inespresso, che caratterizzano il suo sconcerto. Kafka avrebbe potuto semplicemente scrivere: Fu preso dal terrore. Ma allora non sarebbe stato Kafka e noi non ce ne ricorderemmo).
6.1 La prima domanda di chi scrive è: sono capace di descrivere la mia camera? La seconda: sono capace di descriverla in modo che chi legge non si annoi o non pensi a un pieghevole di un’agenzia immobiliare?
6.2 Uno scrittore vero non discute mai le impressioni che gli altri provano leggendo quello che ha scritto (dopo un lavoro durato anni, e dopo un giorno e mezzo di lettura, alla reazione drasticamente negativa degli amici, Flaubert accantona il suo progetto – La tentation de saint Antoine – senza dire una parola), perché quello che ha fatto è un lavoro, un’opera socialmente utile, non una proiezione del proprio desiderio di essere lodato.
7. Il racconto si svolge necessariamente nel tempo (dal fatto che la pellicola cinematografica è costituita da fotogrammi, il nouveau roman ha erroneamente dedotto che l’essenza del cinema è la fotografia. In ossequio a questo principio Claude Simon ha potuto impiegare una decina di pagine per descrivere un piccione sul davanzale della sua finestra… che ancora è lì e aspetta una mano pietosa che lo faccia volare via. Ma Brodkey ne impiegherà quaranta per farci assistere, estasiati, a una fellatio in Storie in modo quasi classico) e dunque chi scrive deve misurare attentamente la relazione tra il tempo della scrittura, il tempo narrato e il tempo della lettura: quasi mai i tre tempi coincidono. A volte sono necessarie più parole per descrivere un’azione, perché una descrizione più sintetica ha l’effetto di un movimento accelerato, ridicolo, anche se il significato è lo stesso. A volte il contrario. Se Pierino è a letto con Pierina e suona il cellulare, posso certamente scrivere: «Rispose immediatamente». Ma se voglio suggerire che rispondere è per lui faticoso o penoso in quel momento dovrò dire qualcosa come: «Guardò prima il cellulare che suonava sul comodino, poi allungò una mano, lo sentì vibrare e finalmente si decise a rispondere». Quello che non devo fare è scrivere: «Non aveva voglia di rispondere ma prese ugualmente la telefonata». Perché? Perché in questo modo ho tolto al lettore la rappresentazione, l’ho informato su un fatto, che è quello che l’arte non dovrebbe mai fare, perché molte altre forme espressive, compreso il linguaggio comune, lo fanno già meglio.
8. Chi scrive non deve mai innamorarsi di un’idea. Il manoscritto dell’Infinito di Leopardi mostra soluzioni del tutto diverse via via scartate, perché quello che stava cercando era una forma compiuta e autosufficiente, non l’espressione di un sentimento. Non è il racconto che deve adeguarsi a ciò che voglio dire, ma ciò che voglio dire che deve adeguarsi al racconto. Questo è l’ostacolo più grande per chi inizia a scrivere, motivo per cui, almeno all’inizio, è meglio scrivere di cose che non interessano minimamente (il sogno di Flaubert: scrivere un romanzo su niente). Diceva Cardarelli: Ispirazione per me è indifferenza. | Poesia: salute e impassibilità. Si può essere appassionati lettori, e anche lettori ingenui, ma questo è proibito quando si scrive.
8.1 Prima di scrivere un romanzo, cimentarsi in un romanzo o in un racconto di genere, perché lì le regole della retorica sono meglio definite (la retorica intesa come mediazione, luogo d’incontro tra le aspettative di chi legge e il mestiere di chi scrive) e si corrono meno rischi di naufragare nell’indefinito, lì s’impara il mestiere e ci si mette alla prova. Non è più facile scrivere un buon giallo o un racconto di fantascienza, ma richiede una stretta osservanza, un controllo sulla scrittura che educa alla disciplina letteraria.
9. Chi ama la gloria e scrive per la gloria può ricordarsi che tra un miliardo di anni (se non succede niente prima) il sole avrà reso irriconoscibile l’intero sistema solare, oppure, come diceva quel tale, può trascorrere le sue giornate prendendo a schiaffi i tutti i bambini che incontra, si sarà procurato così una posterità che non lo dimenticherà mai. Meglio scrivere per soldi. Meglio ancora per il piacere di scrivere e d’imparare a scrivere.
10. A volte anche i mediocri scrittori o i dilettanti hanno un’idea fulminante, come quell’amico che voleva iniziare un romanzo così: «La bambina, grazie a dio, era morta». Incipit splendido, ma come andare avanti? Una frase può suggerire un romanzo, può trascinarlo con sé meglio di una teoria o di un farraginoso schema morale (voglio scrivere sulla incomunicabilità della società, sulla povertà, sul potere, sul sesso, sulla vita di un artista ecc.), ma è solo un mattone. La fatica di mettere uno sull’altro migliaia di mattoni, di controllare continuamente il filo a piombo, di preparare la malta, di segare le assi ecc., questo è il duro lavoro dello scrittore, e a volte viene da chiedersi: chi glielo fa fare? Il contenuto e la forma di un romanzo o di un racconto sono inclassificabili e imprevedibili, si va dall’azione pura di Un manoscritto trovato a Saragozza di Potocki, all’Uomo senza qualità di Musil. Ma tutti hanno in comune la costruzione. Niente dovrebbe appassionare uno scrittore più della costruzione, non la lingua (con buona pace dei linguisti, che come i becchini vengono a esequie avvenute e mettono la cassa sotto terra), non il bello scrivere, non la bravura, non la cultura, ma la semplice costruzione. Infatti il lettore si innamora dei personaggi, si appassiona a quello che accade, patisce, spera o soffre, attende con ansia la pagina successiva. Oppure smette alla prima pagina. La magia della scrittura narrativa è tutta qui. Il resto, come direbbe il generale Patton, sono balle.
Decalogo da consigliare, da conservare come utensile nella cassetta degli attrezzi. Marco
Bello. Si può condividere citando la fonte?
“perché quello che ha fatto è un lavoro, un’opera socialmente utile, non una proiezione del proprio desiderio di essere lodato.”
BUAAAAAA!!! 10 minuti di applausi :-)
Certo Cristiana, tutto ciò che appare in Samgha (citando la fonte) è condivisibile. Lo facciamo proprio per questo, per scambiarci libere idee ;)
S.B.
Grazie. Non sapevo se potevo riportarlo in versione integrale o pubblicare solo un estratto, anche rispettando l’attribuzione.
Sono parole sante, soprattutto i punti 2 e 9 che costituiscono i punti deboli di moltissime persone che si cimentano nella scrittura, e tentazioni in cui rischiano di cadere tutti gli altri (me inclusa).
L’unica “nota stonata”, ma solo per un mio personale punto di vista, è il punto 1: trovo che scrittura e lettura abbiano un legame imprescindibile, ma ripeto, è solo la mia opinione.
Complimenti! Non conoscevo questo blog e dopo ciò che ho letto lo seguirò con più attenzione!
cara Marta (e anche Cristiana),
vorrei tornare sul punto, mi pare, più discusso, quello del legame tra lettura e scrittura. Lo so che sostenere una indipendenza della scrittura dalla lettura (lo dico così approssimativamente) può sembrare paradossale e anche un po’ balzano. Ma se così non fosse dovremmo concludere che chi legge molto scrive anche bene e viceversa. In effetti si tratta di attività molto diverse. Tra le tante considerazioni al proposito (la più banale: ci sono molti ottimi lettori che non sanno scrivere, in senso artistico ma non solo, e penso a certi critici o storici), vorrei ricordare che nel vecchio sistema scolastico europeo, soprattutto francese, si “insegnava a scrivere”, in vari modi ma lo si insegnava, con risultati apprezzabili (basterebbe leggere certe lettere di bambini che un tempo si esprimevano molto meglio degli adulti di oggi). Un’educazione di massa alla scrittura (oggi nelle aziende si tengono corsi di scrittura per manager!) favorirebbe certo la possibilità di esprimersi in modo compiuto, mentre la semplice educazione alla lettura, per quanto decisiva per la formazione del gusto e della sensibilità, non produce gli stessi risultati. Vorrei anche aggiungere che esiste un tipo di lettura-scrittura interessante, al proposito, che è la traduzione. Esercizio importante per chi scrive, perché aiuta a comprendere i meccanismi del testo sotto forma di esperienza, cosa che la sola lettura non è in grado di realizzare. Questo almeno è quello che ho capito io. Ti (vi) ringrazio per il tempo che hai dedicato ai miei appunti.
Bruno Nacci
C’è tanto da imparare.
Come Marta anche io trovo che tra scrittura e lettura ci sia un legame, benchè tanti aspiranti scrittori insistano a voler fare questo mestiere pur avendo letto soltanto 2 libri in vita loro.
C’è tanto da leggere.
Concordo su tutto (anche se i commenti nei quali si è completamente d’accordo con l’autore del post mi paiono ultronee manifestazioni di piaggeria). Certo, scrivere non è una vocazione, scrivere non è (e per fortuna) una professione. Scrivere è un mestiere, come mestiere è quello del ciabattino, dell’orologiaio o, appunto, del manovale che mette pietra su pietra, controllamdo continuamente (strenuamente) il filo a piombo sulla linearità del suo lavoro. Ferruccio Parazzoli nel suo “Inventare il mondo” dice di mettersi al tavolo da lavoro con la volontà di “fare” come i “grandi” scrittori, quelli che, dice lui, appaiono sulla garzantina. Una sfida quasi bohemienne quella di Parazzoli? Non so. Comunque, ripeto e concludo, concordo su tutto.
Decalogo abbastanza ozioso, con ovvietà del tipo: “Molti si siedono al computer o alla macchina da scrivere e iniziano il capolavoro”. Ovvio che in tutti i campi ci sono i velleitari e i realmente talentuosi. Questi ultimi lo sono soprattutto in quanto non seguono decaloghi preconfezionati.
@lapeperini
Ciao Lucio (Angelini), personalmente sono d’accordo con te, ma come avrai notato questo pezzo forse decalogo non è, tanto è vero che decalogo è scritto nel titolo con il punto di domanda, proprio per sottolineare che decaloghi e manifesti o liste in genere possono sempre essere infinite e possono contenere un po’ di tutto e il contrario di tutto.
Sicuramente invece,a mio parere,in questo pezzo, con il giusto tono,sono rimarcati dei passaggi sulla scrittura che è sempre bene ricordare o tenere in parte presenti, e in questo senso trovo che questo pezzo sia utile e divertente.
Comunque se non ti è piaciuto puoi sempre sbizzarrirti a dirci la tua opinione su altri pezzi, su Swedenborg, Roussel, sul quel che dice Rezza nel video che abbiamo messo che forse è più nelle tue corde, su Arbasino, su Marosia Castaldi, Su Cortazar o sugli articoli di Simone Marini sull’IA..e poi segnalarci i tuoi libri da ristampare riguardo la nostra inziativa dei “Mille e non più mille..” che trovi sempre qui e che il 19 gennaio sarà aggiornata.
Ah.. se mi mandi la tua email personale all’indirizzo della rivista volevo chiederti una cosa, sempre riguardo il parlar di libri.
Ciao.
Simone Battig
Mia email semplicissima:
lucioangelini@alice.it
Ciao.
Per capice qualcosa della vita, leggere è obbligatorio, scrivere no. Un punto che manca al decalogo e che ci farebbe vivere tutti meglio.
Andiamo a cavillare se avete un po’ di tempo da perdere.
bruno nacci:
“Ma se così non fosse dovremmo concludere che chi legge molto scrive anche bene e viceversa.”
Dai, questa deduzione è eccessiva! Anche perché di solito chi legge molte scrive per lo meno in maniera comprensibile :) E’ la Voce, non tanto lo scrivere in sé, la Voce di un autore che non viene automaticamente leggendo. Ci terrei a precisarlo perché non si sa mai che qualcuno fraintenda. Giusto?
Aggiungerei, citando Francis Scott Fitzgerald, che “Non si scrive perché si vuol dire qualcosa; si scrive perché si ha qualcosa da dire”.
Un racconto è sempre qualcosa di più di una sedia e lo scrivere non è soltanto semplice artigianato.
Un vero racconto nasce dalla necessità di esprimere qualcosa – idea, concetto, visione del mondo- a qualcuno -lettore ideale o reale. La domanda che qualsiasi scrittore o aspirante tale dovrebbe porsi prima di prendere in mano una penna è “Ho qualcosa da dire?”. O meglio: “Ho qualcosa da dire che possa interessare qualcuno?”. Soltanto successivamente lo scrittore ha il dovere di concentrarsi sugli aspetti tecnico-pratici – sulla carpenteria. Una sedia senza spirito è solo manierismo.
Credo.
o0
“Ho qualcosa da dire che possa interessare qualcuno?” è una domanda fondamentale. Lo scrittore (o aspirante tale) deve tornare a essere umile, a scrivere per dare qualcosa di sé agli altri, non per soddisfare il suo ego.
follelfo: l’esempio della sedia, credo, non è fatto per differenziare artigianato ed arte, ma solo per far notare come spesso la gente si approcci alla scrittura pensando “so scrivere”, semplicemente perché faceva bene i temi.
Follelfo, come si fa a rispondere veramente alla domanda “Ho qualcosa da dire che possa interessare a qualcuno?”. Si fa un’indagine di mercato? Un giro di telefonate? Come si fa? No. Quello che bisogna fare e’ scrivere e basta e sperare di non essere in solitudine. Guarda che questa domanda che hai fatto e’ cinica e colpevole piu’ di quel che pensi. Immagina qualcuno che ti stia raccontando qualcosa di assolutamente importante per lui ma che a te non interessa proprio niente. In base a quello che hai detto cosi’ una persona, poverina, la distruggi. Tra l’altro Scott Fitzgerald scrive: “Non si scrive perché si vuol dire qualcosa; si scrive perché si ha qualcosa da dire”, ossia esplicitando la forma “si scrive perche’ si ha qualcosa che si deve dire”, cioe’ si ha un’urgenza, un imperativo kantiano che ci comanda, un demone. Forse Fitzgerlad voleva dire l’opposto di quello che tu sostieni.
Detto questo, la tua domanda “Ho qualcosa da dire che possa interessare a qualcuno?” puo’ probabilmente valere non per un povero aspirante scrittore ma per uno scrittore che mettiamo dopo decine di libri e decine di contratti senza aver sfondato mai un tetto di vendite importante e in pratica senza che nessuno se lo sia mai filato veramente perseveri a far decaloghi di cio’ che e’ giusto e cio’ che e’ sbagliato e a dire questo e’ letteratura e questa spazzatura, e a lasciar intendere il mondo gira il contrario, solo io vado per il verso giusto. Del resto, pero’, a pensarci bene anche quel povero scrittore ha tutto il diritto di alimentare le sue speranze di affermazione dittatoriale verso il mondo, ha tutto il diritto di comportarsi da grande nobile decaduto, da talento declassato, di sperare che la sua ambizione (vecchia di anni e anni ormai: ma in un certo senso sempre giovane) venga ricompensata nel modo che ritiene il piu’ adeguato – cioe’ probabilmente con una diavolo di antologizzazione perenne. Quindi, tutto sommato, anche per questo scrittore vale il precetto fitzgeraldiano “scrivi la tua urgenza” e poi, aggiungo io, spera di non essere solo una voce tra la voci.
@Simone
Sì, l’avevo intuito. Il mio intervento era semplicemente volto a sottolineare il fatto che nemmeno l’abilità tecnica è condizione sufficiente per creare un racconto.
@Marco
Penso che non sia molto chiara la differenza tra “qualcuno” e “molti”. Interessare a “qualcuno” significa interessare ad almeno una persona. Detto questo, immagino appaia evidente l’inutilità dell’indagine di mercato e l’incoerenza dell’esempio del poverino condannato a morte della mia indifferenza. Mi spiego facendoti un esempio: A., quarantenne italiano medio, ha appena visto la finale di Champions e vuole raccontare le azioni salienti a B., astrofisico di stanza al polo nord da un paio d’anni; ovviamente B. si mostrerà totalmente disinteressato. La reazione di B. non indica il fatto che il resoconto di A. manca di interesse, ma semplicemente il fatto che B. non fa parte del “pubblico ideale” di quel determinato resoconto. Sarebbe di gran lunga meglio per A. parlarne con C., noto ultras delle brigate rossonere. È sempre necessario sapere a chi rivolgersi.
Per quanto riguarda “il demone”, l’imperativo kantiano che obbliga a scrivere, ritengo doveroso per un aspirante scrittore tentare di confinarlo nel mondo degli ardori estetici adolescenziali, perché nel mondo della letteratura non è di molto aiuto. Nessuno scrittore scrive perché è costretto a farlo; si scrive sempre nella speranza di essere letti da qualcuno; anzi si scrive per essere letti da qualcuno – altrimenti perché affannarsi tanto nella ricerca di un editore, nella gestione di un blog, nella pubblicazione di una rivista? Senza narratario non esiste narrazione e senza lettore non esiste l’oggetto letterario in sé.
Per quanto riguarda la seconda parte della tua risposta davvero non capisco la connessione tra “interessare a qualcuno” e “sfondare un tetto di vendite importante”. Non voglio certo sostenere che è necessario scrivere qualcosa che possa piacere al maggior numero possibile di persone, né giudicare migliore un’opera apprezzata dalla maggioranza rispetto ad un’altra letta da un piccolo gruppetto di eruditi. Dio me ne scampi. Quello che sostengo è che ogni persona (e tanto più un dilettante, rispetto ad uno scrittore professionista), prima di iniziare a imbrattare un foglio, ha il dovere morale di chiedersi se lo scritto nascituro potrà avere un almeno un lettore interessato. E ti dirò di più, secondo me cercare di raffigurarsi quel lettore è condizione imprescindibile per la buona riuscita della scrittura. Quando il foglio smette di essere bianco, è necessario fermarsi, prendere un bel respiero, rileggere e iniziare a pensare: Ma questo benedetto lettore ha seguito la mia penna fino a qui o mi ha già abbandonato?
Ma non volevo parlare di questo; il mio laconico intervento voleva soltanto essere un ulteriore consiglio da inserire nel decalogo, magari a mo’di piccola nota. Secondo me ogni aspirante scrittore deve porsi la domanda “Ho qualcosa da dire?” e cercare di darsi una risposta affermativa; se non riesce a farlo, allora non credo abbia senso per lui invischiarsi nel temibile travaglio della scrittura.
Ah, ovviamente è una semplice opinione personale. Detto questo, mi scuso per la fastidiosa lunghezza dell’intervento e ringrazio la redazione di Samgha per l’ospitalità.
o0.
“Per quanto riguarda “il demone”, l’imperativo kantiano che obbliga a scrivere, ritengo doveroso per un aspirante scrittore tentare di confinarlo nel mondo degli ardori estetici adolescenziali, perché nel mondo della letteratura non è di molto aiuto. Nessuno scrittore scrive perché è costretto a farlo; si scrive sempre nella speranza di essere letti da qualcuno; anzi si scrive per essere letti da qualcuno – altrimenti perché affannarsi tanto nella ricerca di un editore, nella gestione di un blog, nella pubblicazione di una rivista? Senza narratario non esiste narrazione e senza lettore non esiste l’oggetto letterario in sé.”
Sara’, ma di questo ‘demone’ parlano molti scrittori abbastanza cresciutelli. L’ultimo che ho sentito per dire e’ Carlo Coccioli che parla di una forza implacabile (non sto citando a memoria; lui usa una parola francese) che lo spinge a scrivere. Per il resto mi pare che riduci troppo tutto quanto a una questione di affermazione personale. Aprire un blog, una rivista, in fondo, puo’ anche essere solo un piacere, non ci vedrei tutto questo affanno, questa corsa. Poi, si scrive per esser letti? Secondo me si scrive innanzitutto per leggersi. Scrivere e’ chiarirsi a se stessi. Poi a volte scatta una seconda fase – ma non sempre, non per tutto, non in tutti – che e’ quella che porta a cercare una condivisione. Io, che son di provincia, ad esempio fino a ventitre ventiquattro anni ho scritto di nascosto, senza dirlo mai a nessuno, senza far leggere a nessuno (e io scrivevo romanzi e racconti, non invettive contro il mondo che non va), e mi vergognavo come un cane. Poi, anche grazie alla invenzione rivoluzionaria della rete, ho trovato persone che ho giudicato adatte a leggere le mie cose, che guarda un po’ erano scrittori (chi piu’ adatti di loro?) e via, ho cominciato a dare libero sfogo alla mia passione. Cercherei di vedere con piu’ umanita’ le cose.
Poi, Follelfo, rispondi alla domanda. Come si fa sapere veramente quando abbiamo scritto qualcosa che possa interessare qualcuno? Secondo me non esiste una risposta certa. Allora la risposta e’: scrivi, imbratta, pasticcia, paciuga, invia alle case editrici, invia tonnellate di fogli (anche in bianco) ai ‘talent-scout’, fa tutto quello che devi fare, e poi… si vedra’.
Trovo la discussione molto interessante perché mi pare di vedere che più che cercare le risposte assolute si cerca di porsi le domande migliori. Mi pare un ottimo punto di partenza.
Vorrei dire che qui gli interventi prolissi e ragionati sono di gran lunga preferibili ai commenti tipo “boutade”, per cui nessuno si senta in obbligo di scusarsi se occupa spazio. Abbiamo tutto il tempo e lo spazio che vogliamo prenderci, qualcuno ci può stoppare?
Da parte mia vorrei dire solo un paio di cose.
Il fantomatico lettore a cui rivolgersi a mio avviso non esiste. Se si comincia a raffigurarsi un lettore (che per inciso nessuno mi ha mai saputo descrivere e tantomeno inserire in uno spaziotempo..) a me pare che si cominci a deviare da quella necessità di scrivere evocata più volte. Rifacendomi al video di Rezza su Artaud che qui abbiamo postato sono abbastanza d’accordo con alcuni concetti che esprime, ad esempio non rimanere impiccati al “filo” della comprensione. Che vuol dire questo? A mio avviso non si può anteporre l’idea di “essere letti” all’idea di “scrivere”. Posso benissimo scrivere e leggermi da solo con grande piacere e utilità. Quindi la domanda sullo scrivere per essere letti etc etc… io la posporrei alla questione di essere pubblicati (o se volete di pubblicare qualcosa in rete, o di decidere di far leggere il proprio manoscritto a qualcuno etc etc..), perché con l’atto di scrivere e basta non mi sembra che c’entri molto. Ma ovviamente qui si tratterebbe di fare un saggio….
E’ stato invece evocato anche il discorso di “fare un blog”, una rivista etc etc….e accomunato all’idea di essere letti. Be’, no. Samgha ad esempio nasce non per la voglia di scrivere cose per essere letti (ognuno di noi starebbe meglio a far altro magari remunerato, magari preferirebbe pensare a scrivere i propri libri o i propri testi..), ma per fare con fatica una cosa che sta nelle nostre teste, perdendo parecchio tempo in modo piacevole per mettere “in una memoria collettiva che si sviluppi per conto suo” tutta una serie di riflessioni e spunti che un gruppo di persone pensava fosse importante condividere e da cui partire per permettere a molti di poter condividere i propri spunti e delle discussioni non superficiali come oggi invece sembra che la rete abbia ormai preso a fare.
Questo vuol dire che chi scrive qui vuole essere letto da più persone possibili o da persone a cui questo interessa? Sul passo breve direi di no, sul passo lungo della proiezione direi “di essere letti” da persone che si incrociano per strada nel tempo, senza nessun obiettivo che non sia la libera circolazione di idee, anche opposte, anche in conflitto, anche apparentemente assurde. Come avviene nella vita. Non parlo per essere ascoltato, parlo per esprimermi, perché ho la necessità di farlo e so già in partenza che non sarò capito per quello che voglio dire veramente, o perché l’intelocutore non è adatto o perché io stesso in quel frangente non ho i mezzi per farmi capire o perché vi sono dei fattori vari che non me lo permettono(ad esempio l’emotività, il vento, il poco tempo, il mal di testa, l’alcol, la somministrazione abusiva di soldi in nero, la cornice politica o ideologica Etc Etc..)
Se si fa una cosa in uno spazio virtuale, a mio avviso, non c’è per forza un’idea forte di volere che le persone leggano, c’è solo l’idea di mettere in deposito qualcosa che forse tornerà utile a chi scrive e a chi legge, senza potersi raffigurare prima chi scrive e chi legge. E anche qui ci sarebbe molto altro da dire.
Ho segnalato l’articolo su creativaconc, spero ti faccia piacere:
http://creativaconcc.blogspot.com/2010/01/10-1-decalogo-per-scrittori-inesperti.html
Ciao
Simona
Ciao Simona, certo che ci fa piacere. Siamo qui per far circolare idee e confrontarci con tutti quelli che hanno voglia di condividere la loro passione per i libri e la letteratura, e non solo.
S.B.
Grazie.
Ora, grazie a voi, so alcune cose che prima non sapevo: ad esempio, so che devo assolutamente leggere “Storie in modo quasi classico” di Brodkey ;-)
Contribuisco alla discussione con l’articolo di Beniamino Placido: “Evviva i romanzieri dilettanti”. Qui:
http://lucioangelini.splinder.com/post/22028899/LO+SVENTURATO+%28BENIAMINO+PLACI
Mi pare che il paragone al punto 1 sia fuorviante. Ne propongo un altro: “La relazione tra la lettura e la scrittura è la stessa che c’è tra il guardare una partita di calcio alla televisone e il giocare in campo da professionisti”.
Volendo, si può anche allungare aggiungendo: “Tutti i giocatori professionisti studiano in televisione le partite delle altre squadre. Ma ciò che li rende dei giocatori professionisti non è la loro capacità di capire e analizzare le partite altrui, bensì la loro capacità di tradurre poi in concrete scelte e azioni nel campo da gioco ciò che hanno capito e analizzato guardando le partite in televisione”.
Scusate, ho dimenticato di firmarmi. giulio mozzi
Scrivete e basta
@Marco
Si rende necessario un ulteriore distinguo. Non nego in alcun modo l’utilità della scrittura per se stessi quale strumento di autoanalisi e scavo psicologico del proprio io, ma, come penso sia evidente, questa tipologia di scrittura non dà luogo ad un oggetto letterario. O almeno così è nella grandissima maggioranza dei casi. Ripeto: un testo letterario esiste solo nel momento in cui almeno un lettore lo legge e questo al di là del valore intrinseco dell’opera. Non penso sia un discorso di umanità, ma solamente una determinata visione critica del sistema letteratura.
Sono pienamente d’accordo sul fatto che non si può avere alcuna risposta alla domanda “Questo scritto può interessare a qualcuno?”, ma ciò non toglie che qualsiasi aspirante scrittore è tenuto a farsela, prima di iniziare. Non credo che tu voglia qui sostenere che le domande che non danno luogo a risposta certa siano inutili. Altrimenti staremo ballando sopra gli sproloqui di centinaia di filosofi e intellettuali morti e stecchiti.
E poi, come ultima cosa, concepire il proprio scritto in vista di un lettore futuro equivale ad una mera volontà di autoaffermazione personale? Perché? E dove sta scritto? Una persona che scrive ha bisogno di un lettore perché senza lettore il proprio scritto non esiste, semplicemente. E questo al di là delle contingenze; può anche essere un lettore futuro, un lettore lontano, sperduto, solo. Ma ogni scrittore ne ha bisogno di un ipotetico lettore, sempre.
@Simone Battig
L’intervento è senza dubbio lucido e argomentato. Non mi sento di ribattere per un motivo molto semplice: io e te – spero che in questo piccolo spazio che mi prendo la semplice seconda persona sia ben accetta – concepiamo il sistema letterario in maniera diversa. Ed è la diversità critica e metodologica che fa avanzare la cultura.
Vorrei fare, però, una piccola aggiunta.
Tu dici che Samgha non nasce con alcuna intenzione di essere letta, ma nel giro di poche righe ti contraddici, aggiungendo che “Se si fa una cosa in uno spazio virtuale, a mio avviso, non c’è per forza un’idea forte di volere che le persone leggano, c’è solo l’idea di mettere in deposito qualcosa che forse tornerà utile a chi scrive e a chi legge, senza potersi raffigurare prima chi scrive e chi legge”. Il concetto di “mettere in deposito qualcosa che forse potrà tornare utile a qualcuno” comunque implica un lettore e un pubblico di riferimento. Per quanto possa essere ipotetico e non razionalizzato.
Non sostengo che lo scrittore debba adeguarsi ai gusti del pubblico, ma che ogni scrittore deve pensare al senso di ciò che sta scrivendo, sì. (E qui preferisco riferirmi al giovine aspirante scrittore oggetto del decalogo). Ce ne sono già troppi di imbrattacarte per non sentirsi in obbligo di suggerire ad ogni persona con velleità letterarie di farsi la domanda “Ho qualcosa da dire?” e cercare di darsi la risposta. È un modo per prendere coscienza della propria ambizione; uno scrittore non è un arrotino: deve riuscire ad ammettere a se stesso di voler interessare un ipotetico lettore. Siamo sinceri; ognuno di noi ha l’ambizione di avere qualcosa da dire, altrimenti non saremmo qui a «fare con fatica una cosa che sta nelle nostre teste, perdendo parecchio tempo in modo piacevole per mettere “in una memoria collettiva che si sviluppi per conto suo” tutta una serie di riflessioni e spunti che un gruppo di persone pensava fosse importante condividere e da cui partire per permettere a molti di poter condividere i propri spunti e delle discussioni non superficiali come oggi invece sembra che la rete abbia ormai preso a fare».
o0.
Follelfo, ma scusa un momento: come fai davvero a sostenere che “una persona che scrive ha bisogno di un lettore perché senza lettore il proprio scritto non esiste, semplicemente”? L’hai letto su qualche manuale? Te lo ha detto qualcuno di cui ti fidi particolarmente? Guarda che se tu scrivi una cosa quella cosa esiste, non c’e’ bisogno di un lettore perche’ esista. Tu puoi anche scrivere uno scarabocchio di trecento pagine, infilarlo in un cassetto e poi buttare il mobile a trecento metri di profondita’ nel mare. Quella cosa li’ esiste. La tua affermazione si autodivora. Non e’ vero’ che uno scritto non esiste se non c’e’ un lettore che lo legge. E’ semplicemente uno scritto che nessuno ha ancora letto e di cui nessuno conosce l’esistenza. Facciamo un altro caso. “Ho scritto un romanzo che si chiama ‘Cambia nomignolo perche’ di matti in giro ce ne sono gia’ abbastanza e mi metti paura”, poi ti posso mostrare l’oggetto-libro e non fartelo leggere. Lo scritto esisterebbe, no?
Anche quando mi scrivi: “Sono pienamente d’accordo sul fatto che non si può avere alcuna risposta alla domanda “Questo scritto può interessare a qualcuno?”, ma ciò non toglie che qualsiasi aspirante scrittore è tenuto a farsela, prima di iniziare. Non credo che tu voglia qui sostenere che le domande che non danno luogo a risposta certa siano inutili. Altrimenti staremo ballando sopra gli sproloqui di centinaia di filosofi e intellettuali morti e stecchiti”
Il fatto che esista una religione cristiana da piu’ di duemila anni non prova l’esistenza d’alcunche’, purtroppo. Credo che su questo possiamo avere ragione entrambi. Per finire questa dicussione io propongo di vederla cosi’: e’ giusto porsi una domanda come questa, purche’ una domanda come questa non ci blocchi e non diventi una tortura.
Mi scrivi:
“Per quanto riguarda la seconda parte della tua risposta davvero non capisco la connessione tra “interessare a qualcuno” e “sfondare un tetto di vendite importante””
Se non capisci la connessione, che c’e’, rileggi fino a quando non l’hai capita.
Dire “uno scritto ha bisogno di un lettore ipotetico per esistere” a me sembra come dire che un cavallo ha bisogno di un angelo custode per correre nei campi. Mi pare che ti lasci trascinare dalle parole senza meditarle a fondo prima. Uno “scritto” e’ una roba concreta, un “lettore ipotetico” e’ un concetto astratto, il verbo “esistere” esprime concretezza. Se scrivo “Belzebu’ esiste” io voglio proprio dire che un Belzebu’-cosa esiste e posso rappresentarlo e descriverlo. Forse tu vuoi dire: “Uno scritto per avere un senso, una fruibilita’, una qualche accessibilita’ deve essere calibrato su un lettore ipotetico”, il che va benissimo, ma non c’entra affatto con la sua “esistenza”.
Se una sedia è fatta per sedersi, uno scritto è fatto per?
Se non avessimo sederi per sederci, esisterebbero le sedie e porterebbero ancora quel nome?
quello che mi rende perplessa è la riduzione tout court della scrittura a scrittura di narrazione. inoltre, trovo che l’idea di proporre un “decalogo” per la buona scrittura sia assolutamente velleitaria. nel mio lavoro vedo che una buona prova di scrittura si può comprendere solo ex post, ma non si può “prevedere”. si può analizzare per capire come è stato prodotto un certo (buon) risultato. ma se io provassi ad applicare a priori le stesse tecniche o procedimenti o sonorità ecc. non necessariamente (e nemmeno probabilmente) otterrei risultati altrettanto buoni, neppure se facessi tutto per bene. (certo potrei ottenere una buona o scadente imitazione). da un certo punto di vista, neanche una corretta sintassi e ortografia è necessaria alla scrittura. per esempio, forse che l’autobiografia “Terra matta” di Rabito utilizza correttamente sintassi, ortografia e lessico? eppure chi può negare la potenza di quella scrittura? eppure chi consiglierebbe di scrivere così? eppure chi mai avrebbe potuto consigliare a Rabito di NON scrivere così? insomma, chi scrive deve cercare la sua strada, conscio di poter fallire, anzi conscio che difficilmente non fallirà. con l’umiltà di prendere atto dei giudizi di chi leggerà (giudizi anche difformi). alla fine se la scrittura di narrazione è un atto artistico e creativo significa che non si può sottoporre a decaloghi preventivi. poi, come ogni creazione umana, il risultato potrà essere oggetto di tentativi di comprensione da parte dei suoi “fruitori”. che sperimenteranno in primis l’efficacia, la congruità, l’emozione del risultato. e se vorranno cercheranno di distinguere come e con quali mezzi questo risultato è stato raggiunto o meno. dopo di che questa comprensione e l’esperienza della lettura si combineranno nella mente di un altro scrittore-creatore per produrre nuove creazioni sulla base della libertà personale. da ciò si deduce che non concordo affatto sull’affermazione iniziale che lettura e scrittura non hanno niente a che vedere l’una con l’altra. non sono condizioni tra loro reciprocamente né necessarie né sufficienti, eppure l’esperienza di ciascuno di noi dice che esse sono in rapporto: leggere non è ininfluente per chi scrive, come scrivere non è influente per chi legge.
Nel dire che in questo momento della discussione mi riconosco più nel sentiero di opinione di Marco Candida che di Follelfo, vorrei sottolineare alcune cose.
Come avrete notato questo pezzo è il primo dopo 4 mesi di vita che parla espressamente di “scrittura”.
Come avrete notato la discussione immediatamente si è impennata. Ci sono persone che hanno trovato i “Piccoli consigli…” interessanti, persone che non li considerano interessanti, persone che li considerano molto fuorvianti e contradditori, ad esempio Giulio Mozzi qui: http://vibrisse.wordpress.com/2010/01/12/e-rischioso-scrivere-decaloghi-se-non-si-e-dio/
Quando si parla di semplici letture si fatica ad avere due commenti su un libro. Anche questo sarà indice di qualcosa che si riproduce anche nel web credo, ma ne eravamo già a conoscenza.
Mi preme dire che tutti hanno preso a chiamare il pezzo “decalogo” e nessuno “Piccoli consigli”, nonostante decalogo sia stato scritto con il punto di domanda. A nessuno è venuto in mente mi pare che mettere il punto di domanda era forse una maniera per sottolineare che se di consigli “infiniti” sullo scrivere possiamo sempre parlare è sempre impossibile stilare un decalogo o un finto decalogo su un argomento così complesso. E nel mettere la parola decalogo con il punto di domanda (iniziativa di Samgha con il placet dell’autore del testo che è autore del resto del titolo) questo si voleva sottolineare avendo letto prima di tutti il testo.
Per rispondere a Follelfo che dice che abbiamo idee diverse sul “sistema letterario” rispondo che sinceramente non ho ancora le possibilità per giudicarlo e alla fine se la differenza è sul lettore ipotetico non credo sia una differenza dirimente della discussione come già detto riferendomi al fatto che “scrivere” e “pubblicare” (essere letto) sono due cose diverse.
Io credo che persino uno scrittore molto letto possa scrivere un intero romanzo solo per scrivere, pensando a se stesso come lettore magari perché ha la necessità di scrivere quello per capire delle cose che lo porteranno a scrivere altro che forse penserà di voler far leggere a qualcuno. Per fare un esempio.
La questione lettore secondo me è: o penso ad un lettore di riferimento a cui possa interessare quello che scrivo, e quindi lo devo connotare nello spazio tempo immaginandomelo con determinate caratteristiche (che per me diventeranno in qualche modo condizionanti nello scrivere), altrimenti è “inutile” che io pensi ad un lettore generico che non so quando mai apparirà e che caratteristiche avrà da qui a duemila anni e che come unico effetto avrà quindi quello di riportarmi meccanicamente ad un’idea di lettore simile al lettore “contiguo” dell’attualità.
Ma ripeto, è interessante ascoltare tutto dopodiché ognuno che scrive avrà il suo approccio personale e in fondo è questo che fa la differenza reale nella letteratura, è la Voce dei grandi scrittori. Una voce e non un diorama.
Sul fatto di Samgha come “oggetto letterario” fatto per essere letto, non so, rimango della mia idea. Non so nemmeno che oggetto sia e come evolverà. Non so nemmeno se avrà dei lettori domani. Non so cosa vi verrà scritto. Non so in che modo vi si scriverà.
So che esiste.
Simone Battig
Mi scuso con Lucio Angelini (di cui abbiamo bloccato un commento contenente un link), ma per scelta all’origine del nostro spazio web rispetto alle discussioni, ai commenti e ai post non pubblichiamo link “recenti” ai giornali. Vorremmo che le discussioni rimanessero sul punto in relazione diretta ai post e alle discussioni che si sviluppano, per permettere ai lettori e a chi naviga di esprimersi personalmente al riguardo. I giornalisti hanno appunto i giornali per esprimersi sul “quotidiano” o possono agevolmente commentare di propria sponte argomentando qui. E’ una scelta come un’altra per evitare intrecci a nostro avviso dispersivi e garantire spazio a chi interviene con le proprie argomentazioni dedicando tempo ed energie alla discussione superiori a quello che serve per immettere un link. Dico questo, senza alcuna vena polemica verso i giornali e le riviste che amiamo molto e compriamo e leggiamo abitualmente.
S.B.
In quel caso il link non conteneva opinioni, ma giustificava la mia osservazione. Fa niente. Continuate per la vostra strada.
Un ulteriore commento di Giulio Mozzi a questo pezzo qui: http://vibrisse.wordpress.com/2010/01/13/due-seminari-a-padova/#comment-4604
E la mia risposta che riporto anche qui:
“Giulio, io credo di aver capito i tuoi ragionamenti sul pezzo di Nacci, che in parte condivido ampiamente e ho già spiegato nei commenti al pezzo di Nacci alcune mie impressioni. Però riportare la parola decalogo senza punto di domanda come invece è stata proposta continua ad essere fuorviante: è stata messa apposta per provocare reazioni come la tua e dimostare una cosa che ampiamente si è dimostrata mi pare: che i consigli generano discussioni ragionate e domande e i decaloghi sono inutili e incompilabili. Come mi pare tutti abbiano più o meno esplicitato.
Comunque Nacci che ora è in Tirolo e non può rispondere risponderà credo del suo ragionamento che ho l’impressione sia più ironico di quello che tu gli attribusici definendo “intimidatori” i consigli.
Riguardo i tuoi seminari è applicabile lo stesso ragionamento che fai sul “decalogo?” se prendiamo il titolo “Il dialogo e la costruzione della scena” e le seguenti domande che tu poni come traccia, dove per quanti esempi tu possa citare da Scarpa a Proust non potrai mai fornire un panorama esaustivo di come si può costruire un dialogo e ci sarà sempre qualcuno che partendo da tutt’altra analisi sulla scrittura scriverà un dialogo migliore. Stesso discorso vale per i consigli sugli editori che, come tu ben sai, qualsiasi cosa un autore o un editor possano mettere in atto hanno l’ultima parola e la metà delle volte se non di più sono impermeabili ai ragionamenti di largo respiro.
Insomma mi sembra che i consigli di Nacci e i tuoi seminari dimostrino le stesse cose: è utile parlare di scrittura sempre perché porta alla luce domande migliori forse di quelle che da soli ci faremmo, ma è inutile teorizzare sistemi formali percorribili rifacendosi alle analisi su testi già scritti per costruire strutture narrative “nuove” perché si rischia di far danni più che passi in avanti. L’analisi invece mi è molto utile solo come lettore per godermi alcune cose di un testo approfondendo la stratificazione delle letture possibili, e tra lettore e scrittore come avete ben esplicitato entrambi…..c’è differenza.
Ovviamente la mia è solo un opinione e non un dogma da inserire in un decalogo.”
Simone Battig
commenti tutti molto interessanti.
davvero.
ora: la questione “si scrive per essere letti versus si scrive perché si esprime un bisogno, una necessità”, è annosa.
io tenterei una mediazione – se vi va.
(forse) si scrive perché si esprime un bisogno complesso, che comprende tanto la necessità di mettere su carta quello che si sente di dover assolutamente dire, quanto – e insieme – il bisogno che quello che si è messo su carta sia condiviso, ovvero: letto. quantomeno letto da chi, leggendo, esprime un ulteriore bisogno – quello di ri-trovarsi in quello che è stato messo su carta.
la *quantità* di lettori è un’altra questione ancora [che, per dirne una, dipende anche dal Mondo – da cosa piace al Mondo in un dato momento storico-sociale. e – per dirne un’altra – dipende anche dalla commercialità e dalla commerciabilità delle scritture].
come un altro discorso ancora è la *tecnica*, nel senso di: capacità di mettere su carta, in modo più o meno leggibile, ciò che si sente come impellente.
e-
[aggiungo: poi, ovviamente, c’è chi scrive e poi butta – volontariamente – tutto in un cassetto (sì, ne conosco, per fortuna); e c’è chi scrive solo per raggiungere il maggior numero di lettori, senza istanze o necessità altre rispetto a guadagnare del denaro dai diritti dei propri libri (e sono onesti lavoratori, che fanno – per altro – un bellissimo lavoro). ma credo che anche questi siano ascrivibili – seppure con dei limiti – nel ragionamento di cui sopra]
Ottima mediazione enpi, anche se per essere trattata nella sua suddivisione ci vedrebbe impegnati per anni di studi. Ma diciamo che per il nostro caso di uomini del 2010 si può condividerla. A me che piace ragionar per eccesso e anche un po’ per invenzione questo annoso discorso sul “si scrive per essere letti” mi pare sempre insolubile se affrontato ora, nel nostro tempo, con le nostre conoscenze ed esperienze.
Però, se per assurdo andiamo a vedere quando nasce la scrittura mi pare che si possa dire che la scrittura sia SEGNO. Insomma nasce da quella roba lì che poi si evolve e su cui più persone poi si mettono d’accordo per attribuirgli gli stessi significati etc etc…. Ora, ragionando sempre per assurdo facciamo finta di essere con il primo uomo della caverne che “decide” di fare un segno, cioè di “scrivere”.
Mi pare impossibile sostenere che quell’uomo abbia in mente di essere letto (sa già che nessuno ha la più pallida idea di cosa sta per segnare sulla roccia perché nemmeno lui sa cosa andrà a segnare), quell’uomo ha in mente di “esprimere” in qualche cosa che poi chiamerà segno qualche cosa, di esprimerlo a se stesso, credo si possa dire. Ha in mente solo, esclusivamente, la sua necessità, in prima battuta. Dopodiché arriva il secondo uomo delle caverne che gli grugnisce “Che cavolo è quella roba?” e il primo uomo delle caverne comincia a dirgli tutta una storia assurda che in realtà quella linea un po’ arcuata è il cacciatore che l’altro giorno hanno visto urinare dietro un cespuglio…allora quell’altro fa un altro segno e mentre scrive gli spiega che però il cespuglio non si vede e che se vuole che ci sia un cespuglio bisogna che faccia così e cosà etc etc…insomma poi si mettono d’accordo e cominciano a far segni e a dirsi cosa significano e da lì, nell’uno e nell’altro, forse nasce la necessità di essere letti.
Quindi ora, dallo sviluppo di tutto il nostro bisogno di perfezionare i nostri segni nasce l’idea di essere letti, ma in prima istanza la scrittura mi pare si sia risolta in un bisogno fine a se stessi.
Non è una gran teoria filologica però io la trovo buona per quello che sento riguardo la scrittura, ovviamente nella sua versione più precisa che per brevità non mi sono messo a riportare qui, ma credo che comunque dia l’idea di come la penso sulla questione.
Simone Battig
sì, Simone. l’esempio è buono.
si entra nel campo dei codici, però.
lingua e scrittura da una parte e segno dall’altra.
certo, la parola scritta è un insieme di segni, ma codificati in modo diverso rispetto al segno puro [al di-segno].
per dire, la decodifica dell’arte non figurativa del 900 [astrattismo, informale, espressionismo astratto ecc.] è complessa tanto quanto la decodifica della letteratura sperimentale del 900, ma necessita di un minor numero di codici acquisiti – o quantomeno: necessita di codici diversi. e ha maggiore immediatezza [proprio nel senso di “meno mediata”].
insomma: una scena di caccia rupestre è decodificabile al di là, per esempio, della lingua e della specifica lingua parlata – inglese, arabo, italiano ecc.
però entriamo davvero in questioni dentro le quali non mi sento del tutto a mio agio :D
ciao,
enrico
E’ vero Enrico, e come sempre il discorso è molto articolato.
Lo si può tagliare anche in altro modo secondo me rispetto alle affermazioni sull’essere letto e sull’avere in mente un lettore o, soprattutto, sul farsi la benedetta domanda “Ho qualcosa da dire?”
Farsi questa domanda a me pare che porti ad incappare in alcune crepe logiche. Spesso chi dice “scrivo per me stesso” viene quasi tacciato di avere un atteggiamento snob…ma chi si fa questa domanda “prima o mentre scrive il suo libro” (come è stato suggerito) non ti pare che sia illogico?
Come faccio a sapere se qualcuno è interessato a ciò che scrivo e se in quel che scrivo ho qualcosa da dire e ancora peggio se quello che volevo dire l’ho detto bene se ancora non ho terminato di scriverlo e di esporlo nella sua interezza?
Non posso pormi queste domande a priori, è secondo me evidente.
Per questo suggerivo di distinguere tra “scrivere” e “pubblicare”, perché nel pubblicare c’è il chiaro intento di voler far leggere (a più persone), nello scrivere non ci può essere, se non “dopo” che ho scritto….o no?
A me anche questo sembra un buon esempio per affrontare meglio la questione annosa.
Simone Battig
sì, concordo, Simone.
scrivere può essere un’esigenza, pubblicare no. pubblicare ha più a che vedere con la vanità. o col darsi pane [con l’idea che scrivere voglia dire darsi pane, quando – invece – pubblicare non dà quasi mai pane].
Il racconto che preferisco è questo:
Quando si svegliò vide che il dinosauro era ancora lì.
(A. Monterroso)
Ahh…Carlo, sfondi una porta aperta.
Io però preferivo questo: “A questo,punto, che in questo istante mi è stato imposto da qualcosa di più forte di me, che rispetto e che odio.” (A Monterroso).
Per me rappresentava (e rappresenta)un sacco di cose, tant’è che lo misi persino in esergo nel primo libro che pubblicai, ormai 13 anni fa (sigh!).
Condivido in pieno, Simone, se scrivere è scarnificare senza perdere il succo, Monterroso ha molto da insegnare. Me ne occupai in uno dei tanti e mai troppi corsi di scrittura frequentati a Milano.
Saluti e complimenti per il vostro blog
Come ritengo discutibile l’articolo di Bruno Nacci “Piccoli consigli per gli scrittori inesperti”, così probabilmente qualcuno di voi riterrà discutibile l’articolo che compare sul blog http://fabriziocaramagna.blogspot.com
in replica a quanto scritto da Bruno Nacci.
Spesso però da punti di vista discutibili, nascono le discussioni più interessanti
Si possono avere degli esempi di linguisti-becchini?
Io ho avuto da eccepire sull’ottimismo della realizzazione delle intenzioni dell’autore e sulla mancanza di sangue nel costruire una sedia: http://eudemonico.altervista.org/wordpress/viva-la-rivoluzione.html
Questa non è una replica, ma solo una puntualizzazione. Penso che alcuni dei gentili lettori abbiano preso un piccolo abbaglio: i miei “consigli” scherzosi erano indirizzati ai principianti (come la redazione ha ricordato giustamente)! Non ho voluto esporre l’ennesima teoria (detesto le teorie e ne sono incapace) sulla letteratura, ma solo indicare e sottolineare l’esigenza di considerare quello letterario come un “lavoro”, o meglio di considerarlo sotto l’aspetto del lavoro, e non, romanticamente ma anche velleitaristicamente, come una “creazione” che obbedisce a misteriosi impulsi. Perché il punto è solo questo. Quanto alla domanda che lo scrittore si dovrebbe porre sull’avere o no qualcosa da dire, anche la mia simpatica portinaia ha qualcosa da dire, e infatti lo dice. Ma un conto è avere qualcosa da dire (e ritengo che tutti gli esseri umani abbiano qualcosa da dire, non solo gli scrittori), un conto è confezionare un racconto (anche oralmente: a tavola qualcuno attira la nostra attenzione con i suoi racconti altri annoiano da morire). Dal momento che, idealmente, mi rivolgevo a un principiante, che aiuto potrebbe essere per lui “avere qualcosa da dire”? Nessuno. Mi scuso per il mio vezzo di fare esempi, ma da ex ex atleta (così lascio stare le sedie che tanto infastidiscono), il mio amato maestro non ha iniziato i primi giorni di palestra a dirmi: hai voglia di vincere? sei motivato a salire sul ring (che ho visto solo mesi dopo)? No, mi ha massacrato di ginnastica, mi ha distrutto per ore e ore davanti allo specchio, al sacco, spronandomi e correggendomi, urlando ecc. E così ho capito, poco alla volta, di cosa si trattava e come la boxe, al di là dell’idea eroica che me n’ero fatta e dei film, fosse in realtà un lavoro durissimo e spietato, un lavoro. Riassumendo: la discussione è spesso scivolata, mi pare, sui motivi dello scrivere, sul rapporto scrittura pubblico, sul valore, ecc. che io non mi sono nemmeno sognato di toccare. Il mio discorso era molto più pedestre (e anche il titolo che alludeva al Decalogo era ironico, autoironico), voleva dire: guarda bello mio che se vuoi salire sul ring (per diventare campione del mondo o solo per imparare a tirare pugni) devi acquisire i fondamentali. Tutto qui. Ovvio che Joyce non fa sedie, ovvio che Omero non è un artigiano, ovvio che Kafka non è un operaio specializzato, ovvio che tutta la tecnica del mondo non produce un solo racconto di Flannery O’Connor (se così non fosse si potrebbe insegnare ai computer a scrivere racconti come si è insegnato loro a giocare, splendidamente, a scacchi)! Ma anche Joyce e Kafka (proprio perché sono tali) conoscevano e applicavano (in che modo le abbiano conosciute è un altro discorso) le regole basilari. Mi scuso dunque, ma la mia intenzione era così bassa che a qualcuno è sembrato impossibile che volessi ricordare una semplice banalità (forse infastidito dalla mole di aspiranti scrittori che ingolfano le redazioni delle case editrici proprio perché su questa banalità non hanno riflettuto): se vuoi scrivere prima impara a scrivere, sia nel senso più banale del termine, sia in quello delle tecniche di scrittura, che il genio può anche dissolvere, ma solo perché le conosce. In altri termini, era un discorso arrogante sull’umiltà. Ringrazio la rivista e i suoi redattori oltre che i lettori e quelli che hanno avuto la bontà di perdere tempo su queste sciocchezze, soprattutto perché tutti quanti siamo ancora capaci di perdere tempo, in un tempo in cui sembra che tutti abbiano altro da fare.
Mi avete colpito qui:
“Niente dovrebbe appassionare uno scrittore più della costruzione, non la lingua”
Io sono un linguista, di formazione, professione e deformazione. E secondo me avete ragione, perché mi rendo conto che quello che veramente mi piace della scrittura è tornare indietro e riscrivere: la lingua.
Cosa dovrebbe fare secondo voi uno a cui la lingua piace più della costruzione?
per scrittore intendevo naturalmente uno scrittore di romanzi e di racconti, ma altrettanto evidentemente ci sono molte altre forme di scrittura, non meno importanti. Io ad esempio amo la cosiddetta prosa d’arte (da Slataper a Cecchi, da Montano a Baldini, da Cardarelli a Longhi per restare tra gli italiani e tra i moltissimi), e credo che una bella pagina di pensiero e di emozioni sia preferibile a cento brutti racconti o romanzi.
La cosa migliore è proporre, ed eventualmente far sottoscrivere, un regolare contratto di edizione allo scrittore in fieri con un soggetto e una struttura editoriale definiti. E’ il sistema più sbrigativo per stroncare carriere e ricondurre al buonsenso ragionieri e laureati in materie umanistiche.
Sì, certo, sì, lo sappiamo.
Le case editrici e i lor lettori INTERNI sono disperati per la mole spaventosa di orridi dattiloscritti che ricevono.
D’accordo.
Però che ‘ste case non se la tirino nemmeno troppo, veh!
Perché per esempio a ogni concorso per magistrato ordinario, e dunque una volta ogni anno e mezzo circa (la prossima volta nel prossimo luglio), si presentano più di 35.000 candidati, di cui diciamo pure che consegnino tutti e TRE gli scritti soltanto in 25.000 (e ne abbiamo già tolti troppi).
Ne restano venticinquemila. Da moltiplicar per 3 dacché le prove scritte son tre.
Ora, i membri della commissione – e pure le inevitabili sottocommissioni – sono composte per legge da una decina di commissari, per lo più magistrati, i quali si devono spupazzare la lettura collegiale di oltre SETTANTAMILA temi, con obbligatoria lettura ad alta voce a turno – e obbligo inoltre di correggere almeno 2 mattine e 4 pomeriggi la settimana (sempre per legge).
E, siccome lì in mezzo alla commissione NON possono esserci magistrati di prima nomina, e il Presidente è per forza un Consigliere di Cassazione, che Lor Signore Case editrici non se la tirino nemmeno troppo!
Anche perché i temi dei concorsi pubblici NON sono dattiloscritti, bensì MANOSCRITTI – il che è ben peggio!
Il vero punto, al solito, sono i QUATTRINI:
Gli è che anche i GROSSI editori non sono disposti a SPENDERE una emerita mazza per una lettura seria e massiva dei dattili che ricevono.
Non faccio nomi, ma uno fra i più grossi editori italiani scrive nel suo sito web di NON accettare più MANOSCRITTI.
Elisabetta Sgarbi un tempo ne riceveva un sacco e dialogava con gli scrittori nel suo blog. Poi è assurta a No. 1 di Bompiani e ha dismesso, ovviamente, quell’attività di lettura e supporto consulenziale – e non c’è stata sostituzione, da ciò che mi risulta.
Insomma, io capisco bene tutto quel che si dice – anche qui nei commenti al post di Nacci -, però dico: attenzione a non fare della…BIO-GENETICA RAZZIAL- SCRITTURALE, che è MOLTO spiacevole.
Come in tutti i settori (medicina, diritto, ecc.), l’elevazione della scolarità italiana, nelle materie non matematico-fisiche, ha portato all’intasamento.
Che si deve fare?
Chi sta preposto ai posti giusti, prenda i giusti provvedimenti, che però NON possono ragionevolmente essere il cestinare e nemmeno il disincentivare, bensì – come si fa nei concorsi pubblici con le c.d. sotto-commissioni – l’AUMENTARE il NUMERO dei LETTORI intesi come ESAMINATORI dei dattiloscritti.
Viceversa si fa della dittatura mascherata a proposito della letteratura.
Selezione degli eletti (dicansi raccomandati, i quali non è detto siano pubblicati, ma sono visti con attenzione e sottoposti a editing interno all’editore che rade a zero e rifà tutto).
Il che mi pare una fesseria (Jack London docet).
Gianni Vals
Gianni..fino a qualche tempo fa (ora è molto che non guardo) a me faceva scompisciare la dicitura che aveva messo la casa editrice Feltrinelli sul suo sito riguardo alla spedizione di manoscritti: “Non si accettano manoscritti non richiesti”
Ho pensato a lungo chi dovesse chiederli a chi in base a cosa e come, poi ho aspettato tre anni che mi chiamassero per richiedermi in lettura il mio ultimo romanzo ma stranamente non ha chiamato nessuno :D.
A parte gli scherzi le case editrici sono macchine complesse e spesso la mano sinistra non sa nemmeno cosa fa la destra. L’altro giorno ho letto un’intervista a Franchini, editor Mondadori, che era meravigliosa perché riusciva a parlare per tre pagine senza dire nulla a proposito di letteratura e senza accennare minimamente a come un editore decide di investire migliaia di euro su un libro piuttosto che su un altro…
Per fortuna chi pensa di essere uno scrittore di tutto ciò se ne può ampiamente fregare e scrivere lo stesso.
Il pubblicare è un’altra faccenda e, se ti devo dire la mia, io, in questo preciso momento, sono anche contento di non avere nessuna seria proposta per pubblicare il mio ultimo romanzo. Andare in libreria con quello che si vede in giro mi provocherebbe problemi di coscienza ;).
Egregio Dottor Battig,
proprio ieri sera ho visto per caso a cena se pure in un ambiente assolutamente NON letterario fra gli altri una persona che fa il lettore/lettrice interno/a in una ottima casa editrice che fa parte di uno dei due grossi gruppi editoriali italiani. E mi diceva che ci sono autori italiani su cui decidono di investire in lavoro di editing interno, per cui ricevono il soggetto dall’autore e poi fanno tutto internamente gli editor. Questi mi diceva sono gli autori italiani che poi troviamo anche nelle edicole e nelle stazioni ferroviarie e nei supermercati. E vero che così non c’è gusto e che i libri fanno pena, ma escono ottimi libri e sono tradotti, e poi c’è alla fine il soggetto o poco più basta per la paternità dell’opera se dietro c’è una <> a elaborarlo e un contratto. Questo però è evidente che lo si fa solo su autori segnalati e all’interno dei massimi gruppi editoriali dove appunto esiste una vera e propria organizzazione. Però intanto sono così gli autori nuovi che escono, praticamente tutti <> dal chirurgo estetico dei dipendenti degli editori che sanno fare il loro mestiere e ci dedicano un sacco di tempo perché comunque stipendiati e incaricati dai loro capi. E’ questa la inevitabile conseguenza dell’affollamento dei manoscritti che nessuno ha il tempo di vedere tutti: affollamento che corrisponde per lo più a quello crescente delle facoltà umanistiche negli ultimi trenta anni. Per cui ben venga, anche se qualcuno dice stupidamente il contrario, la miriade di giovani che anziché andare all’università fa uno dopo l’altro tutti i provini per reality e talent show e veline e altre trasmissioni televisive, così almeno un po’ di affollamento si sposta sulla tv, no?
Grazie a tutti, ma un applauso a gianni vals!
Scrivere, esprimersi, coinvolgere persone, è bello e fa bene a ci lo fa e a chi viene coinvolto, ma se si comincia a parlare di case editrici… aiuto!!!! sono i soldi che fanno girare il mondo e che guidano scelte di ogni tipo.
personalmente scrivo perchè mi fa stare bene. scrivo diari da decenni, solo per fissare meglio la mia vita nella mia memoria. nessuno leggerà mai, per quello scrivo in libertà.
scrivere per gli altri implica grande responsabilità.
grazie per il decalogo, grazie per tutte le vostre considerazioni: dimostrano che nonostante le case editrici e i loro metodi, la scrittura e la lettura hanno ancora un’anima fervente che emerge ovunque possa, anche nelle discussioni e nei blog. ciao ciao, mariantonietta
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Ci sono delle guide sullo scrivere molto complete qui: http://scrittoridellanotte.forumcommunity.net/?f=6871698
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